La parola geniale
Ogni anno è così: non facciamo in tempo ad archiviare il dibattito sulla legge di bilancio che siamo già sul palco dell’Ariston.
E ogni anno infuriano polemiche di vario tipo, più spesso sul cachet dei presentatori, in tono minore sulla selezione dei cantanti.
La formazione della squadra suscita sempre grande interesse, ai presentatori si affiancano ogni anno artisti di ogni tipo: attori, comici, ballerini… Grande attesa per la conferenza stampa di presentazione del cast che, anche quest’anno, quanto a risonanza mediatica, non ha deluso.
Il sovrano dell’edizione 2020, il capitano della ciurma, il capoclasse – di una sezione tutta femminile – presenta tronfio le sue ancelle. Mi sono presa la briga di guardare il video della conferenza stampa che parecchi guai ha creato ad un professionista che non si può certo dire sia alle prime armi. Due minuti di dichiarazioni che hanno richiesto fiumi di rettifiche, smentite, spiegazioni.
I fatti sono noti, nel presentare la squadra femminile l’aggettivo che il presentatore alterna ad ogni sostantivo è ‘bella’ o ‘bellissima’, come a voler tranquillizzare in merito ai criteri utilizzati nella selezione. Un crescendo rossiniano di conferme rispetto alle qualità delle ancelle che culmina nell’ammirazione sconfinata nei confronti della modella-fidanzata di Valentino Rossi, capace di stare un passo indietro.
Ora io mi dico, ma questi guru del palco, questi presentatori strapagati, ogni tanto, un giornale, lo leggono? Il dubbio è lecito. Nemmeno due mesi fa, in occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, il Sole 24 Ore ha organizzato un grande incontro che ha denunciato come l’uso inadeguato delle parole rappresenti una forma di violenza.
Certe espressioni, come il ‘gigante buono’ che implicitamente tendono ad assolvere un comportamento violento, dovrebbero essere bandite dalla carta stampata, come pure il sempreverde ‘raptus’ che stigmatizza la follia di un momento, non certo un permanente squilibrio. La riflessione vuole porre l’attenzione sulle responsabilità che hanno giornalisti e professionisti dei media nell’utilizzo delle parole.
Una frase pronunciata da un personaggio pubblico contribuisce a costruire un significato per la collettività e, in molti casi, legittima dei comportamenti. Se presentando una ‘collega’ ne esalti reiteratamente la bellezza, saremo portati a pensare che quella è la caratteristica richiesta. E che il resto sia un optional.
È sin troppo ovvio che ci si aspetti che le donne di spettacolo siano belle, peraltro è proprio l’avvenenza che spinge le donne molto belle a fare spettacolo ed è quindi anche statisticamente più probabile trovarne di più in quel contesto. Lo spettacolo è anche il caso eclatante di come la bellezza riesca a offuscare l’assenza di contenuto.
Se poi esaltiamo anche quella qualità che, diciamolo, e per fortuna, si va un po’ perdendo, di stare un passo indietro, legittimiamo con due parole atteggiamenti che hanno richiesto decenni di battaglie per essere contrastati. E che peraltro prosperano in alcune aree del nostro mondo.
Comunque, tornando ai fatti, il presentatore si è affrettato a dichiarare di essere stato frainteso. Frainteso? Diciamo che ci vogliamo fidare e che le parole siano state usate con un significato differente, diciamo che prendiamo per buona la giustificazione addotta, e cioè l’ammirazione per una ragazza che rinuncia alla sua popolarità a vantaggio dei riflettori sempre puntati sul fidanzato.
Ma non possiamo pretendere dal pubblico sofisticate elaborazioni introspettive. Il pubblico memorizza, e fa proprie, parole che finiscono per risuonare come dei mantra. Per questo chi comunica al pubblico questa responsabilità la deve sentire e, se lo fa da anni di mestiere, deve sforzarsi di fare attenzione all’effetto potente delle parole che usa.
Sorprende la leggerezza con la quale si abusa di stereotipi e luoghi comuni e, se non si vuole passare per quello che non si è – maschilista, sessista, irrispettoso – non bisogna utilizzare le parole che abbiamo ascoltato.
C’è sempre tempo per lanciare una parola, diceva Baltasar Gracián, ma non sempre la possiamo riprendere. C’è bisogno di meno superficialità nell’utilizzo del linguaggio. Fortunatamente dimostriamo sempre meno tolleranza nei confronti di questi episodi, come è anche il caso della campagna di sensibilizzazione della regione siciliana contro l’abuso di alcol tra le donne, ritirata a poche ore dalla sua pubblicazione. Il problema nasce qui: se sono le istituzioni e i media i primi a lanciare messaggi sbagliati, sarà sempre più difficile innescare un cambio culturale.
Notizia dell’ultima ora: il governo sta studiano una riforma che prolunghi il congedo di maternità a sei mesi e uno dovrebbe essere usufruito dai padri. La ratio sottostante è che la maternità non deve penalizzare le carriere delle donne, quindi i loro salari, e anche i padri devono farsi carico del lavoro di cura. Dalle politiche di conciliazione si deve passare alle politiche di condivisione. Per capire cosa intendo con condivisione rimando alla lettura dell’articolo del mio vicino di blog. Il papà runner dice tutto.
pay gap, liguaggio, differenze, congedo maternità