La retromarcia dell’export italiano ci riporta indietro di tre anni
Gli effetti del Covid-19 sull’export italiano: per tornare ai livelli del 2019 servono almeno 36 mesi.
I dati contenuti nella XXXIV edizione del Rapporto sul commercio estero L’Italia nell’economia internazionale, realizzato dall’Agenzia Ice in collaborazione con Prometeia, Istat, Fondazione Masi, Università Bocconi e Politecnico di Milano, parlano chiaro. Nel 2019 il valore delle esportazioni di beni e servizi italiani raggiungeva i 585 miliardi di euro, pari al 32% del Prodotto interno lordo, e generava 53 miliardi di saldo attivo nella bilancia commerciale. “Dopo 10 anni di crescita continua, è come se una macchina in corsa si fosse fermata. Ci vorranno due anni, arrivando al 2022, per recuperare i livelli di commercio mondiale ed export italiano”, ha detto il Presidente dell’Ice, Carlo Ferro.
L’obiettivo oggi è riposizionarsi e recuperare la quota di mercato che l’Italia deteneva sull’import mondiale (2,84%). Un risultato importante perché ottenuto in un periodo turbolento sui mercati mondiali, soprattutto per i Paesi europei, stretti nella disputa commerciale tra Usa e Cina, pressati dai dazi americani e confusi nell’incertezza su tempi e termini della Brexit.
Dal 2008 in poi il fatturato prodotto all’estero è stato determinante per dare vivacità al Sistema Paese. “La propensione all’export è cresciuta in maniera consistente, accreditando il ruolo dell’export come sostegno alla domanda. Per esportare, però, occorre avere beni: c’è quindi un problema legato alla produzione industriale”, ha detto il Presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo.
Esportazioni in caduta del 16%
Il settore dei macchinari da solo paga circa 42 miliardi della “bolletta energetica” nazionale. Nel 2019 l’export italiano era cresciuto significativamente in Giappone e in Svizzera, quest’ultima in posizione di grande hub di smistamento internazionale. Si era registrato anche un +7% negli Stati Uniti, nonostante i dazi imposti ai prodotti del Made in Italy, in particolare quelli della filiera agroalimentare.
Poi, è arrivata la pandemia. Nei primi cinque mesi del 2020 la caduta delle esportazioni ha raggiunto il 16%, con effetti evidenti sulle produzioni. I settori più compromessi sono quelli dell’Automotive (-34,5%), dei manufatti vari (-32,5%) – dagli articoli sportivi alla gioielleria, dagli strumenti musicali a quelli medicali – e del tessile e abbigliamenti, inclusi pelli e accessori (-28%).
La fotografia dell’Agenzia Ice individua, però, anche un piccolo segnale positivo. È quello che arriva dal dato congiunturale sulle esportazioni tra aprile e maggio 2020: una crescita del 35%, primo segno di ripresa delle attività. I Paesi dell’Est Europa, insieme con Cina, Russia, Turchia, Germania e Corea, sono tra i primi 10 Paesi per opportunità per l’Italia. Una volta ridotti i margini di spesa, secondo l’analisi dell’Agenzia per l’internazionalizzazione delle imprese italiane gli acquisti dall’estero si dirigeranno verso prodotti a maggior valore aggiunto, più innovativi e contraddistinti dai caratteri della salubrità e sostenibilità.
Il 50% dell’export è generato dalle PMI
Resta il problema della dimensione delle nostre imprese. L’Italia è un’economia di Piccole e medie imprese (PMI): oltre il 50% del nostro export deriva dalle PMI, contro il 20% di Francia e Germania. La più colpite dagli effetti della pandemia sono anche quelle che generano il maggior numero di vendite all’estero. Le aziende italiane che impiegano fino a 50 addetti generano il 20% di tutto l’export, una cifra doppia rispetto a quella delle aziende francesi e tedesche. “Sono, per taglia, le più vulnerabili e, per assetto organizzativo, le meno preparate all’innovazione digitale dei processi”, ha sottolineato Ferro.
Nonostante importanti aree di eccellenza tecnologica presenti anche al Sud, nel nostro Paese la crescita dell’export resta poi a due velocità: le regioni del Mezzogiorno partecipano solo al 10,3% delle esportazioni totali, un dato sostanzialmente fermo da 10 anni. L’Ice quantifica in 17miliardi di euro il potenziale di export addizionale del Sud, declinandolo per settore e regione di provenienza: agrifood, soprattutto, ma anche macchinari, metalli e chimica.
La fase di lockdown lo ha dimostrato: il mercato online rappresenta oggi un fattore determinante per la crescita delle vendite. L’ecommerce può rivelarsi, dunque, un traino importante anche per le esportazioni: nel mondo la domanda di beni acquistabili via Internet cresce a ritmi del 9% e per i prodotti italiani ci sono 1,45 miliardi di acquirenti online da raggiungere. Per non perdere questa opportunità, è tempo di superare i ritardi strutturali del Paese: il tasso penetrazione dell’ecommerce in Italia cresce, ma resta meno della metà della media mondiale (6% contro il 14%). Le vendite B2C realizzate online sono la metà della media di Regno Unito e Francia.
La diversa reazione tra aziende esportatrici e non esportatrici
Dalle esportazioni l’Italia guadagna intorno ai 476miliardi, impiegando un totale di circa 140mila operatori. Durante il periodo di maggiore diffusione del Covid, l’Istat ha realizzato una serie di rilevazioni sulle imprese, indagando problemi, prospettive, azioni e progetti.
Alcuni aspetti sono emersi con particolare evidenza. La caduta del fatturato è stata generalizzata, con una diminuzione registrata dal 71,5% delle imprese. Ad aver beneficiato di un aumento dei ricavi è stato appena il 5% delle attività, circa 50mila imprese soprattutto del commercio. La crisi di liquidità indotta dal calo del fatturato ha colpito oltre la metà delle imprese, con particolare riferimento alle più piccole e a quelle che hanno dovuto fermare la produzione durante il lockdown. Quattro aziende su 10 segnalano rischi per la sopravvivenza dell’attività: il pericolo di chiusure è più elevato per le micro (40,6%) e le piccole imprese (33,5%), ma è rilevante anche per le medie (22%) e le grandi (18,8%).
L’Istituto di statistica ha, quindi, considerato cinque tipologie di impresa: non esportatori, esportatori, esportatori ad alta propensione all’export, esportatori globali, esportatori a controllo estero. Ne è emerso che l’esportazione si configura come un ‘antidoto’ importante alla crisi, attenuando la caduta del fatturato. Il meccanismo non è risolutivo, ma riduce l’esposizione al rischio e funziona tanto più ci si sposta verso tipologie di imprese a più forte vocazione internazionale.
Ciò vale sia per la caduta del fatturato sia per il rischio operativo e di sostenibilità. In fatto di strategie di reazione alla crisi, le imprese esportatrici sono le più reattive: riorganizzazione dei processi, accelerazione digitale, annullamento o differimento dei piani di investimento. Un quinto delle imprese ad alta propensione all’export indica come strategia la modifica e l’ampliamento dei mercati di destinazione. Per un’impresa su sei rileva la possibilità di intensificare le relazioni esistenti o la creazione di partnership con altre imprese, nazionali o estere.
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Giornalista professionista dal 2018, da 10 anni collabora con testate locali e nazionali, tra carta stampata, online e tivù. Ha scritto per il Giornale di Sicilia e la tivù locale Tgs, per Mediaset, CorCom – Corriere delle Comunicazioni e La Repubblica. Da marzo 2019 collabora con la casa editrice ESTE.
Negli anni si è occupata di cronaca, cultura, economia, digitale e innovazione. Nata a Palermo, è laureata in Giurisprudenza. Ha frequentato il Master in Giornalismo politico-economico e informazione multimediale alla Business School de Il Sole 24 Ore e la Scuola superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” all’Università Luiss Guido Carli.
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