La sostenibilità ridotta a metrica
Sostenibilità: impegno chiaro, via accidentata. Rileggiamo un articolo ormai classico, apparso a settembre 2009 sull’Harvard Business Review dal titolo “Why sustainability is now the key driver of innovation” di Ram Nidumolu, C.K. Prahalad e M.R. Rangaswami); l’esordio è perentorio: “There’s no alternative to sustainable development”.
Ricordiamo l’originaria definizione di “sostenibilità”, contenuta nel rapporto Our common future della World commission on environment and development dell’Onu del 1987: “È sostenibile lo sviluppo che soddisfa i bisogni della generazione attuale senza compromettere la capacità delle future generazioni di soddisfare i propri”. Dunque “sustainable development” significa garantire alle generazioni future spazi di libertà, operando oggi in modo che i nostri posteri, nell’immediato e nel lontano futuro, non siano costretti a portare pesi da noi scaricati sulle loro spalle.
Più recente (2015) è la chiamata universale dell’Onu, accolta dai Governi dei 193 Paesi membri: l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile è un programma teso a porre fine alla povertà, a proteggere il Pianeta e a garantire che ogni persona goda di pace e prosperità entro il 2030. Il programma, però, ha due punti deboli, tra di loro strettamente connessi. Il primo consiste nello statuto stesso dell’Onu: gli indirizzi suggeriti non vincolano gli Stati membri. Il secondo limite discende da una inevitabile scoglio: la difficile declinazione dei principi e gli impegni impliciti nel concetto di sostenibilità in una serie di progetti concreti e legati a precise scadenze.
L’Agenda 2030 propone 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile (sustainable development goals, Sdgs), articolati in 169 traguardi. Basta osservare gli obiettivi per cogliere subito le difformità e per porsi domande. Si affiancano l’uno all’altro obiettivi tanto basilari quanto generici (no poverty; zero hunger; peace, justice and strong institutions) con obiettivi di altro ordine (industry, innovation and infrastructure). Si pongono a pari livello obiettivi generali (life of land) con obiettivi che parlano in realtà di azioni specifiche (climate action). La lista appare dunque niente più che il frutto di un comprensibile compromesso politico. Eppure da ognuno dei punti di questa squilibrata lista si vogliono far discendere una serie di indicatori tramite i quali si vorrebbe misurare il cammino verso la sostenibilità di ogni cittadino e di ogni impresa.
Su ogni singolo punto, in ogni caso, devono essere raggiunti accordi globali. Ciò accade, come si sa, con estrema lentezza e con risultati sempre parziali. Valga come esempio l’accidentato percorso degli stati membri dell’Onu verso misure destinate a contrastare la “dangerous human interference with the climate system”, iniziato a Rio de Janeiro nel 1992: sono le 197 le parti, Ue compresa, che hanno sottoscritto la United nations framework convention on climate change (Unfccc). Eppure, 30 anni dopo, nell’autunno 2021, la 26esima United nations climate change conference (Cop 26), ha prodotto scarsi risultati. Gli accordi raggiunti devono poi in ogni caso essere tradotti in leggi emanate in ogni stato.
Così, dall’osservazione del lento procedere della traduzione in pratica dell’orientamento verso la sostenibilità, arriviamo a parlare di un tema che impatta direttamente sull’attività di ogni manager: la Corporate sustainability reporting directive (Csrd) dell’Ue.
Il Corporate sustainability report prevede azioni obbligatorie e vincolanti per le aziende
L’European green deal, approvato nel 2020, è un insieme di iniziative politiche della Commissione Ue che ha per scopo “trasformare l’Ue in una società giusta e prospera, dotata di un’economia moderna”; “proteggere, conservare e migliorare il capitale naturale dell’Ue” e, “proteggere la salute e il benessere dei cittadini dai rischi di natura ambientale”. Dall’impegno generale discende l’obiettivo concreto: “Nel 2050 l’Ue non genererà emissioni nette di gas a effetto serra”.
Di conseguenza, si legge nel Green deal, “servono segnali sul lungo periodo per indirizzare i flussi finanziari e di capitale verso gli investimenti verdi ed evitare gli attivi non recuperabili”. Quindi, poiché “molte imprese si concentrano ancora troppo sui risultati finanziari a breve termine a scapito dello sviluppo a lungo termine e degli aspetti connessi alla sostenibilità”, la sostenibilità stessa dovrà “essere integrata in modo più sistematico nella governance societaria”.
Il Green deal prevede che per spingere le aziende a sviluppare un approccio più responsabile al business, esse devono presentare, assieme al bilancio di esercizio contabile, un Non-financial report, poi rinominato Sustainability report. Il lavoro parlamentare per giungere a definire la Csrd è in corso. Si stanno definendo i reporting framework requirement, che devono essere proporzionati ai rischi sostenuti dall’azienda, alle sue dimensioni e al suo grado di complessità. È anche allo studio lo schema di rendicontazione al quale devono attenersi le Piccole e medie imprese. Ma è già stabilito che il report presentato dalle aziende con più di 500 dipendenti andrà ben oltre la stretta questione delle emissioni nocive; riguarderà, infatti, la sostenibilità intesa in senso ampio: Environmental protection, Social responsibility and treatment of employees, Respect for human rights, Anti-corruption and bribery, Diversity on company boards (in terms of age, gender, educational and professional background).
È in ogni caso evidente il salto di qualità rispetto al noto Bilancio di sostenibilità. Infatti, quest’ultimo è un generico documento rivolto ai portatori d’interessi coinvolti nell’attività dell’azienda, una mera comunicazione degli impegni presi e dei risultati ottenuti nell’ambito della Corporate social responsibility (Csr). Il Corporate sustainability report è invece un atto di mandatory disclosure, un documento obbligatorio e vincolante, regolato da norme di legge e sottoposto, come il bilancio, all’auditing di terze parti indipendenti. Insomma, la falsa dichiarazione nel Corporate sustainability report è equiparata al falso in bilancio.
Nell’iter parlamentare della Corporate sustainability reporting directive è stato inoltre precisato che dovrà essere definito “un elenco di indicatori che misurino gli impatti sulla sostenibilità e coprano i rischi di sostenibilità più significativi”. È a questo punto che nei documenti di lavoro del Parlamento Ue appare l’acronimo ESG: si ritiene necessario, si legge nei documenti preparatori, il “development of environmental, social and governance reporting requirements”.
Ma i parametri ESG hanno degli aspetti nascosti, ancora poco considerati, perché l’acronimo ha preso il sopravvento nel mondo della sostenibilità, soprattutto perché è un termine del settore finanziario…
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Francesco Varanini è Direttore e fondatore della rivista Persone&Conoscenze, edita dalla casa editrice ESTE. Ha lavorato per quattro anni in America Latina come antropologo. Quindi per quasi 15 anni presso una grande azienda, dove ha ricoperto posizioni di responsabilità nell’area del Personale, dell’Organizzazione, dell’Information Technology e del Marketing. Successivamente è stato co-fondatore e amministratore delegato del settimanale Internazionale.
Da oltre 20 anni è consulente e formatore, si occupa in particolar modo di cambiamento culturale e tecnologico. Ha insegnato per 12 anni presso il corso di laurea in Informatica Umanistica dell’Università di Pisa e ha tenuto cicli di seminari presso l’Università di Udine.
Tra i suoi libri, ricordiamo: Romanzi per i manager, Il Principe di Condé (Edizioni ESTE), Macchine per pensare.
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