La telefonata della sera
Era sera tardi quando l’AD chiamò al telefono il capo del personale. Si era da mesi in Smart working, ma quel manipolo di fedelissimi che il dovere chiamava in presenza continuava a seguire gli orari trascinati senza limiti di prima della pandemia. Neppure il virus aveva potuto scalfire le abitudini negative di un mondo che, abolite le timbrature del cartellino, all’improvviso sembrava ormai appartenere al Novecento.
“Il report analitico del costo del lavoro aggiornato all’ultimo trimestre mostra che ancora non c’è una inversione di tendenza. Le ricordo che lei quest’anno ha l’obiettivo di ridurlo del 10% e su questo si gioca il suo Management by objectives (Mbo). Ma non ci siamo proprio!”. Salvatore Esposito – lo chiameremo così – replicò con un timido “ma…”, interrotto dall’AD con un secco: “Non ci sono né se né ma. Un capo del personale non fa chiacchiere, è pagato per essere altamente operativo!”. “Certo ingegnere, ma lasci che le spieghi. Tagliati i premi, i riconoscimenti, le promozioni, congelato il turnover, non ci resta che ridurre il personale. Lei vuole allora che mandiamo a casa un po’ di persone?”. “Faccia lei Esposito, faccia per il meglio”, rispose l’AD chiudendo bruscamente la telefonata.
Quante volte nelle testimonianze aziendali nei master o ai corsi per gli studenti ho sentito ripetere la stupida frase: “Siamo professionisti di Risorse Umane, il nostro è il mestiere più bello del mondo!”. Sì, è bello lavorare con le persone, ma non sempre in questo mestiere riusciamo a lavorare per le persone. Vi sono momenti e fasi nella vita aziendale in cui tutte le nostre filosofie sul valore e la centralità delle persone in azienda si scontrano con una realtà dura e cinica, e le nostre certezze vacillano davanti ai numeri che devono tornare. Nei momenti critici, nelle curve strette, la cultura della quantità batte sempre quella della qualità. È qui che il nodo dell’etica professionale viene al pettine: come si concilia il principio di economicità con quello del valore? Qual è, se c’è, nella gestione del personale il punto di equilibrio tra etica ed economia? Non sono domande filosofiche, è la pratica quotidiana che ce le propone dinanzi.
Salvatore Esposito (un collega che mi sembra di conoscere da sempre) ha provato a spiegare che pur sopprimendo ogni leva promozionale e incentivante, la riduzione effettiva del costo del lavoro richiede inevitabilmente il taglio delle teste. Un’operazione a elevato tasso di conflittualità che, unita al blocco dei benefit, dello straordinario e dei costi accessori, porta alla irreversibile compromissione del clima aziendale. Il malessere organizzativo, con la conseguente caduta della produttività, è l’effetto più immediato ed evidente del taglio del costo del lavoro. L’ossessione sistematica dei costi, la continua tensione al loro monitoraggio e controllo a prescindere, se lasciata priva di una visione strategica che ne giustifichi l’urgenza e la indilazionabile necessità anche agli occhi del dipendente più distante, non genera valore economico. Può migliorare a breve i conti, ma rischia seriamente di compromettere quelli futuri.
Nell’economia della nuova normalità post pandemica è forse giunto il momento di porre in discussione anche questo caposaldo del controllo economico. Siamo infatti chiamati a operare per la sostenibilità aziendale, un tema che non può limitarsi alla dimensione ecologica, ma richiede di essere declinato anche per il costo del lavoro. Anche qui, a differenza del passato, dovrà prevalere la logica del lungo periodo, cioè della creazione di valore mantenibile nel tempo e a beneficio di tutti gli stakeholder. Bisognerà allora cominciare a riconsiderare il costo alla luce di nuove essenziali domande: quanto vale l’organizzazione agile sul piano dell’incremento della produttività e della contestuale riduzione dei costi di struttura? E quanto la straordinaria flessibilità della manodopera indotta dalla trasformazione digitale? E ancora, con l’organizzazione sempre più reticolare dell’azienda parte organica di un vero e proprio ecosistema produttivo, quanto pesa davvero il costo del lavoro rispetto a quello preponderante delle co-forniture? Non conviene allora agire prima sulla leva del procurement e solo in via residuale su quella delle risorse umane? E dunque Salvatore Esposito, chiamato ad agire “per il meglio” ci rifletterà e chiederà un incontro al suo AD che, ancora una volta, gli concederà solo dopo il tramonto. Esordirà dicendogli: “Riflettiamo, ingegnere…”. “Un capo del personale agisce, non sta lì a riflettere, dottore Esposito!”.
Esposito tirerà un respiro profondo, si farà animo e sparerà la domanda che non avrà risposta: “Mi dica ingegnere, perché per lei il lavoro è un costo e la digitalizzazione è invece un investimento?”.
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Laurea in filosofia, Francesco Donato Perillo ha maturato una trentennale esperienza in Italia ed all’estero nella Direzione del Personale di aziende del Gruppo Finmeccanica (Alenia, Selex, Alenia Marconi Systems, Telespazio). Dal 2008 al 2011 è stato Direttore Generale della Fondazione Space Academy per l’alta formazione nel settore spaziale.
Docente a contratto di Gestione delle Risorse Umane all’ Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e formatore manageriale della Luiss Business School, è autore dei libri: La leadership d’ombra (Guerini e Associati, Milano 2005); L’insostenibile leggerezza del management-best practices nell’impresa che cambia (Guerini e Associati, Milano 2010); Romanzo aziendale (Vertigo, Roma 2013); Impresa Imperfetta (Editoriale scientifica, Napoli 2014), Simposio manageriale – prefazione di Aldo Masullo e postfazione di Pier Luigi Celli, (Editoriale scientifica, Napoli 2016).
Cura la rubrica “Impresa Imperfetta” sulla rivista Persone&Conoscenze della casa editrice Este. Editorialista del Corriere del Mezzogiorno (gruppo Corriere della Sera).
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