L’alba di un mondo agile
“Tu sei triste; ti canterò una canzone per confortarti”, disse il Cavaliere con ansia. “È molto lunga?”, chiese Alice, perché aveva sentito molta poesia quel giorno. “Sì, lunga”, disse il Cavaliere. “Ma è molto, molto bella. Chiunque la sente cantare, o piange oppure…”. “Oppure che?”, disse Alice, perché il Cavaliere s’era subitamente interrotto. “O non piange. Il nome della canzone si chiama Occhi d’Agoni”. “Ah, questo è il nome della canzone”, disse Alice, tentando di sentirsi interessata. “No, non capisci”, disse il Cavaliere, apparendo un po’ amareggiato. “È il nome come è chiamata. Il nome vero è L’uomo vecchio, vecchio”. “Allora, io avrei dovuto dire: ‘È così che è chiamata la canzone?’”, Alice si corresse. “No, che non dovevi. È diverso. La canzone è chiamata Modi e mezzi, ma, sai, così si chiama soltanto”. “Bene, qual è la canzone allora?”, chiese Alice che era già completamente sconvolta. “Venivo appunto a questo”, disse il Cavaliere. “Il titolo della canzone è veramente: Seduto su un cancello”.
Lewis Carroll, il giocoliere del senso, con questo brano tratto dal romanzo Attraverso lo specchio (1871) ci porta letteralmente a spasso fra una dichiarazione e il suo opposto, fino a farci perdere il filo semantico del discorso. Credo che la situazione odierna rispetto al tema smart, pur con altezze meno impressionanti di quelle esperite da Alice, sia la medesima. Intorno a questo termine passpartout ruotano significati talmente diversi e spesso antagonisti da riuscire a fare discutere una tavola di esperti per molte ore di cose, nella sostanza, parecchio diverse. Anche l’esercizio dei distinguo, per quanto lodevole – e in parte necessario – finisce poi mortificato dalla velocità con cui i remote, i total, i south si muovono sui giornali, nei pamphlet delle aziende, nelle bocche di speaker un po’ superficiali. Ma come ci mostra il filosofo Gilles Deleuze nel libro Logica del senso (1969), dove il brano da cui siamo partiti è analizzato finemente, per definire il significato di una parola dobbiamo usare vocaboli il cui senso necessita di altre parole per spiegare le stesse, in una regressione infinita da cui non si esce mai.
Un asset tecnologico per la trasformazione delle aziende
Avendo quindi in mente questo limite-potenziale del linguaggio, proviamo a fare un minimo di back to basic guardando dritto al fenomeno che ci si mostra davanti agli occhi. Volendo fare una breve storia della pratica dello Smart working, possiamo dire che ben prima della pandemia le sperimentazioni erano, quanto meno nelle medio-grandi e grandi imprese, all’ordine del giorno. Timidi laboratori, perlopiù basati su un’idea di estensione spaziale dei modelli organizzativi precedenti, che si traducevano nella concessione di poter operare, per alcune e limitate mansioni, da luoghi diversi rispetto all’ufficio tradizionale. Ma, ahimè, questo voleva dire “da casa”.
Si trattava di modalità, quindi, che non avevano la reale ambizione di trasformare l’esperienza di lavoro, le forme organizzative e le pratiche in modo radicale, ma forse più di dare risposte minimali a una crescente richiesta sociale di flessibilità spazio-temporale. Sono poi arrivate le prime elementari norme regolative e qualche accordo sindacale, più spesso a imbrigliare l’iniziativa che a sostenerla. Ma di fatto questa prima componente – l’estensione spaziale – ha cominciato ad ‘allenare’ a forme eterogenee di organizzazione e pratiche di lavoro.
La seconda componente, collegata alla prima, ma che ha anche una evoluzione più autonoma come direttrice storica, è quella della Digital transformation, la quale ha mobilitato i budget aziendali verso l’acquisizione e l’adozione di piattaforme che a diverso titolo dovevano supportare, efficientare e trasformare, appunto, i principali processi aziendali. Fra queste anche le collaboration platform, che a loro volta hanno cominciato ad allenare a pratiche complesse di interazione human to human, tra cui collegarsi, conversare, rilasciare dati e tracce, archiviare, co-disegnare e produrre. Naturalmente, anche in questo caso, le adozioni erano esperienza timorosa, parzialmente osteggiata, pianificata in tempi così lunghi da non consentire un vero processo trasformativo, a dispetto dei piani di change a esso spesso correlati. Eppure stavamo costruendo un asset tecnologico che, insieme al precedentemente discusso habitus in termini di pratica di lavoro, ci ha consentito di fronteggiare il fermo generalizzato che la pandemia ha richiesto nella sua fase iniziale.
Insomma, forte di queste due – per quanto blande – direttrici di cambiamento e del buon senso e buona volontà delle persone, abbiamo utilizzato quello che avevamo per rispondere alla crisi e insieme – inconsciamente – trasformare in pochi mesi quelle organizzazioni che per anni avevano traccheggiato. Qualcuno non sarà d’accordo con questa dichiarazione, facendo notare che molte sono le aziende, e le istituzioni, che derubricando lo Smart working a soluzione temporanea e d’emergenza richiedono a gran voce il rientro negli uffici. Le obiezioni sono alcuni fra i più persistenti refrain manageriali, quali, solo per citarne i più ribattuti: il recupero della socialità senza la quale il lavoro non può produrre valore organizzativo; l’impossibilità di fare innovazione se non in presenza; la perdita di engagement da parte delle persone. Ma volendo essere estremamente onesti, queste dimensioni erano in corso di sgretolamento da ben prima del famigerato distanziamento. Basta dare un’occhiata alle engagement survey con cui ci siamo ammorbati per anni, per scorgere queste forme importanti di decadenza alla partecipazione e al senso di appartenenza.
Per informazioni sull’acquisto di copie e abbonamenti scrivi a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434400)
Articolo a cura di
Smart working, tecnologia, collaboration platform, Lewis Carroll, Attraverso lo specchio