Barbiere

Largo al factotum (del lavoro)

Il quartiere milanese della Maggiolina (nella zona Nord del capoluogo lombardo, tra viale Zara, viale Marche e via Melchiorre Gioia) è una di quelle che aree della città che ‘sa’ ancora di Milano, o per meglio dire, de Milàn. Qui le botteghe e i negozi storici non sono una rarità e sono privi di quell’aura da ‘casa museo’ che i luoghi poco vissuti inevitabilmente acquisiscono. Uno di questi è il negozio di Antonio Felline, pugliese di nascita, milanese d’adozione, che da 44 anni conduce il suo ‘regno’ di barbiere, accogliendo nuovi e vecchi clienti come se fossero i primi della sua carriera.

Appena entrato, dopo presentazioni e cortesie di rito, gli facciamo cenno della comune passione per la barberia classica, dando il via a una conversazione che si snoda tra aneddoti di vita, riflessioni sul lavoro e tecniche di rasatura: “Faccio questo mestiere da quando ho nove anni, quindi da 64, mese più o mese meno. Mio nonno, così come mio padre, aveva una bottega in centro a Gallipoli e lì ho trascorso i primi anni della mia vita, osservando quei gesti e quei riti ‘del barbiere’ che mi hanno accompagnato fino a oggi”. Felline racconta come l’avvicinamento al lavoro sia stata un mix tra istinto e influenza del contesto: “I miei fratelli, che avevano una struttura fisica più importante della mia, nel tempo si sono spesi in mestieri più faticosi. Al di là di ciò, va detto che la mia destrezza nel mestiere era evidente a tutti e quando si è bravi a fare qualcosa è più facile che ne nasca una passione”.

L’importanza dei buoni maestri

La scelta di trasferirsi a Milano, in seguito al periodo di leva militare, fu per il barbiere un momento cruciale. Giunto in città senza risorse e senza il benestare del padre, che lo voleva al suo fianco nella bottega di famiglia in Puglia, Felline trovò subito lavoro in un negozio dove poter affinare la sua capacità e, non da meno, guadagnarsi da vivere nel nuovo contesto milanese: “Per cinque anni ebbi la fortuna di lavorare per un titolare che comprese le mie origini e la mia situazione e che, di fatto, fu per me un secondo padre. Oltre alla buona sorte di aver trovato immediatamente un lavoro e di averlo addirittura quasi sotto casa, posso anche dire di aver incrociato un ottimo maestro – di mestiere e di vita – che mi prese sotto la sua ala protettrice e, infine, mi ha supportato anche nell’apertura della mia attività”.

Oltre allo stipendio settimanale di 25mila lire (all’inizio degli Anni 70 lo stipendio medio di un operaio si aggirava intorno alle 150mila lire mensili), Felline iniziò a sperimentare quelle forme di riconoscimento (anche monetario) che i clienti gli trasferivano per il suo buon lavoro. Mostrando orgogliosamente un piccolo libro fotografico con gli scatti di una sua esposizione di antichi ferri del mestiere, il barbiere spiega come una parte importante della sua visione del lavoro sia composta dal riconoscimento in quanto fonte di soddisfazione personale: “Dopo aver frequentato i corsi ‘professionalizzanti’ per barbiere qui a Milano, mi venne offerta la possibilità di insegnare a mia volta e, al contempo, mi proposero di andare a lavorare per altri saloni. In quel caso, però, la gratificazione non andava di passo con la gratifica (ride, ndr) e decisi di proseguire nel mio negozio”.

Trovare un significato altro nel lavoro

L’attività di insegnamento fu comunque sperimentata da Felline nei primi anni di apertura dell’attività, quando, in negozio, venne affiancato da alcuni apprendisti: “Provai a formare i giovani al mestiere, ma in Italia ci si scontra troppo presto con le difficoltà nel fare impresa. I costi erano troppo alti e decisi di proseguire senza altre persone”. Oggi, i giovani che passano il maggior tempo in negozio non sono apprendisti o clienti, ma i nipoti del padrone di casa, il quale, con passione e altrettanta consapevolezza, vorrebbe avviare alla professione: “Senza dubbio mi piacerebbe tramandare questo lavoro ai miei nipoti, sarebbe motivo d’orgoglio. Allo stesso tempo, però, mi rendo conto che le condizioni sono molto differenti. Per me il lavoro ha significato emancipazione, indipendenza, realizzazione professionale ed economica. Ha voluto dire prendermi cura della mia famiglia e far laureare le mie figlie. Oggi, la scala sociale è molto più corta e il lavoro non porta con sé le prospettive che aveva una volta”. Questa, quindi, pare essere una causa fondamentale della disaffezione al lavoro, dal momento in cui (almeno nella nostra società) molte delle risorse e delle ambizioni che potevano essere raggiunti tramite una professione, sono assicurate alla partenza (dagli Anni 60 a oggi, al di là del differente potere d’acquisto, il Prodotto interno lordo pro capite italiano è più che triplicato).

L’articolo integrale è pubblicato sul numero di Maggio-Giugno 2024 di Persone&Conoscenze.
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lavoro, senso del lavoro, Mestieri


Alessandro Gastaldi

Alessandro Gastaldi

Laureato in Comunicazione e Società presso l'Università degli Studi di Milano, Alessandro Gastaldi ha iniziato il suo percorso all'interno della stampa quasi per caso, già durante gli anni in facoltà. Dopo una prima esperienza nel mondo della cronaca locale, è entrato in ESTE dove si occupa di impresa, tecnologia e Risorse Umane, applicando una lettura sociologica ai temi e tentando, invano, di evitare quella politica. Dedica il suo tempo libero allo sport, alla musica e alla montagna.

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