Lasciamo i lavori pericolosi alle macchine e teniamoci il resto
Si parla di macchine intelligenti in fabbrica. E di impianti produttivi smart. Ma le macchine – e le fabbriche – di intelligente, hanno ben poco se non è un essere umano a dotarle di intelligenza. Dietro l’etichetta “smart” – in qualunque ambito la si applichi – c’è l’azione umana. Vale anche per i processi produttivi più tradizionali che possono essere aggiornati: nel migliore degli scenari si ridisegna da zero il processo, magari dotandosi dei macchinari più all’avanguardia a livello tecnologico; nello scenario più probabile si aggiorna quanto già esiste. E spesso si fa quello che viene definito il “revamping” delle macchine. Cioè le si aggiorna, dotandole di sensori e software in grado di estrarne dati, per analizzarne i processi analogici all’interno di sovrastrutture digitali.
Nei nuovi luoghi di lavoro ipotizzati dai vari piani 4.0, le macchine diventano più intelligenti perché pur utilizzate per il loro scopo primario, inserite in un processo più complesso, gestito con l’ausilio dei software, forniscono numerose informazioni che altrimenti si sarebbero perse. E quegli stessi dati diventano preziosi per vari scopi, tra cui la manutenzione.
Tuttavia la macchina – per quanto ‘smart’ possa essere – resta sempre uno strumento da maneggiare con attenzione da parte degli esseri umani, ben più intelligenti, ma assai meno resistenti e ben più fragili. Lavorare a stretto contatto con i macchinari di produzione richiede competenze, abilità e formazione, oltre che manutenzione degli strumenti. Il dato diffuso dall’Inail secondo cui sono aumentate del 35% le morti bianche tra marzo 2020 e marzo 2021 è un drammatico passo indietro rispetto al decremento cui si era assistito nel periodo 2015-2019.
Le fabbriche hanno ancora bisogno degli esseri umani. Per fortuna, si dirà. Ma anche “purtroppo”, perché – e i dati sugli infortuni sul lavoro e i recenti fatti di cronaca di Prato e di Busto Arsizio lo confermano – è sempre più complicato avere a che fare con certi macchinari, programmati per svolgere una specifica azione in risposta a comandi scritti su righe di codice, spesso da chi, quelle macchine, non le utilizzerà mai. Sono allo studio macchine collaborative, in grado di interagire con gli umani in modo quasi naturale senza bisogno di particolari protezioni di supporto. Non è uno scenario futuro, bensì realtà già presente in numerose aziende.
Sarebbe di gran lunga meglio, però, se si riducesse (si potrebbe dire addirittura azzerare) il rischio tenendo lontani gli esseri umani da quelle macchine e lasciando che a contatto con questi strumenti ci fossero solo… altre macchine. Esistono già le fabbriche a luci spente, quelle cioè dove non ci sono persone, ma solo macchine che per funzionare non hanno certo bisogno dell’illuminazione. Da lungo tempo – e vale ancora oggi – ci si confronta sul fatto che le macchine ruberebbero il lavoro agli umani. È un processo inevitabile, semplicemente ora sta avvenendo con una rapidità tale che non siamo pronti a gestirne le conseguenze. Forse, sarebbe più utile concentrarsi sulla sostituzione delle persone in tutti quei lavori che ne mettono a rischio la vita.
Ecco, sacrifichiamo le macchine e tuteliamo gli esseri umani. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) potrebbe aiutarci a immaginare una società in cui non c’è più bisogno di persone di fianco ai macchinari, pure a quelli più intelligenti. Come un orditoio o un tornio.
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