L’economia dei pacchi
Il settore della logistica è nel pieno di un ingorgo di problemi che spaziano dalla mancanza di materie prime al nodo del Green pass per gli autotrasportatori. Allo stesso tempo, è alle prese con un forte aumento della domanda e dei volumi, in anticipo rispetto al consueto periodo delle festività di fine anno. Persino lo shopping pre natalizio, infatti, sembra essere a rischio: secondo le previsioni della società di cloud computing Salesforce, le merci che finora non sono state ancora spedite dall’Asia (per fare un esempio) difficilmente arriveranno nei negozi occidentali a dicembre.
Procedendo con ordine, in Italia dal 15 ottobre 2021 è scattato l’obbligo di Green pass per tutti i lavoratori. La federazione di associazioni di trasporti e logistica (Confetra) ha avvertito che tra i suoi 400mila autisti associati uno su tre non ha il certificato verde. E in Italia l’85% della merce viaggia su gomma (fonte: Coordinamento delle associazioni per la difesa dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori Codacons). Nei porti, come a Trieste o ad Ancona, sono scattate proteste e sit-in proprio contro l’obbligo di certificato deciso dal Governo. Le conseguenze di queste e altre situazioni di ‘blocco’ sono diverse: dalla difficoltà nella distribuzione dei generi alimentari ai problemi per le forniture di carburanti alle stazioni di servizio, dalle consegne di pacchi e pacchetti alle forniture di materie prime, prodotti chimici e semilavorati destinati alle industrie.
Queste circostanze, inoltre, capitano proprio nell’anno in cui l’ecommerce globale è cresciuto del 58%, contro il 17% del primo trimestre 2020 (fonte: Salesforce). In particolare l’Italia, nei primi tre mesi del 2021, ha registrato una crescita del 78%, soprattutto nel settore del Food. I numeri possono far capire quindi anche l’aumento della mole di consegne che c’è stata in poco più di un anno. Inoltre, recenti studi di una società assicurativo-finanziaria hanno previsto che le vendite di beni Made in Italy sono destinate a toccare quota 482 miliardi di euro a fine 2021, per poi continuare ad aumentare del 5,4% nel 2022 e assestarsi su una crescita media del 4% nel biennio successivo (si stima il raggiungimento di quota 550 miliardi di euro).
L’accelerazione improvvisa dei consumi e l’effetto frusta
I problemi legati alla carenza di personale per i trasporti conseguente all’introduzione del Green pass (e i ritardi per la strozzatura nelle catene di approvvigionamento) non riguardano esclusivamente l’Italia, ma sono globali e stanno mettendo in crisi le infrastrutture di tutto il mondo. A Los Angeles, dove attracca circa il 40% dei container diretti negli Stati Uniti, sono decine le navi che attendono di essere scaricate a causa dell’ingolfamento a terra legato proprio alla mancanza di manodopera.
“Prima il tempo di attesa per lo scarico al porto californiano era pari a zero, adesso si stimano 13 giorni di attesa per ogni portacontainer, con costi di manutenzione enormi”, spiega Antonio Rizzi, Professore Ordinario di Logistica e Supply Chain Management presso il Dipartimento di Ingegneria Industriale dell’Università degli Studi di Parma. Il docente sottolinea che non sono solo i porti il problema, ma è l’intera filiera della logistica a essere messa in crisi: “La situazione è critica perché si sta verificando, contemporaneamente in quasi tutti i settori, quello che viene chiamato bullwhip effect (in italiano ‘effetto frusta’): si tratta dell’aumento della variabilità della domanda man mano che ci si allontana dal mercato finale e si risale la catena di fornitura”.
Questa amplificazione della domanda comporta un’accelerazione esponenziale degli ordini e della richiesta di approvvigionamento di scorte quando ci si muove da valle verso monte all’interno della catena. “È chiamato ‘effetto frusta’ proprio perché l’oscillazione cresce quanto più ci si allontana dalla mano che la impugna. In questo caso, rimanendo nella metafora, da una parte ci sono i clienti finali, che rappresentano la domanda del mercato, a metà ci sono gli impianti di produzione mentre all’estremità della frusta ci sono i primi fornitori di materie prime e componenti”, specifica Rizzi. L’effetto si produce perché, a fronte della variazione della domanda del mercato, l’informazione si trasmette verso monte tra i vari attori della Supply chain utilizzando non la domanda, ma gli ordini del livello immediatamente a valle, e gli ordini tendono ad amplificare questo segnale. “È come se in un passaparola ogni elemento della catena parlasse in ritardo e aumentasse il volume nel ripetere la parola. Chi si trova alla fine della catena riceve l’informazione in netto ritardo, per cui continua a produrre come se nulla fosse successo, e viene improvvisamente assordato da una domanda che non corrisponde a quella di mercato e che può portare a mancanza di prodotto”, spiega il docente.
Tre professori della Stanford Business School (Hau L. Lee, V. Padmanabhan e Seungjin Whang), descrissero questi effetti in uno studio del 1997 che riportava un fenomeno riscontrato nella multinazionale Procter&Gamble, quando i dirigenti dell’azienda notarono forti oscillazioni negli ordini all’ingrosso di pannolini Pampers, nonostante le vendite al dettaglio fossero relativamente stabili. “Si accorsero che, quando le vendite salivano leggermente, i dettaglianti ordinavano un certo extra di prodotti ai loro fornitori all’ingrosso per evitare di esaurire le scorte. Poi, quando le vendite calavano, i dettaglianti tagliavano in modo deciso i loro ordini”, racconta Rizzi. Ai consumatori, quindi, basta cambiare di poco le abitudini di spesa per indurre le fabbriche a modificare in maniera incisiva la produzione, contribuendo così a mettere in difficoltà le varie catene di approvvigionamento.
“Attualmente molte filiere, abituate a lavorare per lo più senza scorte in ottica lean per soddisfare una domanda per lo più costante pre pandemia, si sono ritrovate a fare i conti con le oscillazioni della domanda dovute alla pandemia: a inizio 2020 c’è stato un inevitabile calo dei consumi, ma successivamente, nel giro di alcuni mesi, si è verificata una repentina ripartenza con ritmi ancora più elevati di quelli pre emergenza sanitaria”, dichiara il docente. Questa oscillazione si sta trasmettendo amplificata verso monte e molte Supply chain, progettate in ottica lean, non sono in grado di gestirla. “A complicare ancor di più lo scenario, è da evidenziare che nella storia post industriale non si sono mai verificati questi cambiamenti così repentini nei consumi. Anche gli eventi bellici hanno avuto cicli più lunghi e meno violenti”, aggiunge. Nel secondo trimestre del 2021, secondo l’Istat il Prodotto interno lordo (Pil) italiano è aumentato del 2,7% rispetto al trimestre precedente, e del 17,3% nei confronti del secondo trimestre del 2020. “Quello che stiamo vivendo in termini di shortage di prodotti, congestione dei trasporti, rincari delle materie prime e dei servizi, quindi, sono le conseguenze di questo effetto frusta intersettoriale e planetario”.
Il Supply chain management può aiutare a gestire la crisi
I primi ad andare in crisi sono stati i produttori che non avevano stock per soddisfarne l’incremento, poi a ruota i produttori di materie prime, che non riescono a fronteggiare la domanda che si distorce e si amplifica man mano che si propaga verso monte ed è diventata ormai ingestibile. D’altra parte gli impianti di produzione di cui sono dotate queste aziende sono stati progettati per rispondere a una ben più contenuta domanda, che ha caratterizzato tutto il periodo precedente al Covid. Le stime del Codacons per il 2021 parlano di una spesa di quasi 100milioni di euro in più per le famiglie italiane rispetto al 2019, a causa dei rincari di: salumi, carne e pesce (+2,5%); bevande e vini (+1,5%); frutta fresca, secca e gli ortaggi (+2,7%); dolci lievitati, pasta e pane (+10%).
Secondo il docente, per uscire da questa condizione in cui domanda e offerta non sono più costanti servono tecniche efficaci di Supply chain management: in particolare bisogna cercare di evolvere da una situazione in cui la Supply chain pre pandemia poteva essere lean, non integrata e che andava bene per una domanda e una fornitura stabile, ad una Supply chain post pandemia, che deve essere integrata, agile, adatta per il nuovo scenario. In quest’ultimo caso gli attori non operano in anticipo rispetto alla domanda, ma approvvigionandosi, producendo e distribuendo just in time, che è quello che il mercato richiede. La logica con cui il prodotto si muove non è quella del lotto economico ma del flusso continuo. “Ovvio che per riuscirci i lead time (il tempo che scorre tra l’inizio e la fine di un processo produttivo) devono essere minimi e la flessibilità produttiva massima nei trasporti e negli approvvigionamenti per non fare esplodere i costi unitari di produzione e di trasporto. Le scorte al più sono di materie prime o semilavorati ‘neutri’ adatti per assorbire domande complementari”, aggiunge Rizzi.
L’approccio da adottare è un approccio integrato, dove i partner di filiera non ragionano per silos cercando di minimizzare il proprio costo, ma si coordinano tra di loro con trasparenza, condividendo i dati di domanda e disponibilità per ottimizzare il costo complessivo di filiera. Grazie a questo metodo, gli attori coordinano il flusso di prodotto che non si muove più a intermittenza ma in modo continuo, evitano di duplicare scorte e attività, e cercando di ridurre il più possibile i lead time e quindi il tempo di attraversamento, per rendere la Supply chain il più reattiva possibile. Ma se questa è la teoria, ben diversa è la pratica, tanto che lo stesso Rizzi ricorda che in Italia un approccio coordinato di questa tipologia è spesso del tutto assente. “Anzi, il rationing and shortage gaming, ossia quel fenomeno per cui a fronte di mancanza di prodotto un buyer con fabbisogno 100 tende ad ordinare 200, ipotizzando furbescamente che il fornitore assegnerà le poche quantità disponibili in base agli ordini, non fa che peggiorare l’effetto bullwhip”.
È questo il caso del già menzionato porto di Los Angeles: per evitare il rischio di mancanza di approvvigionamenti, molti retailer hanno cercato di accaparrarsi scorte di prodotti e trasporti prima del tradizionale periodo festivo, che inizia con il giorno del Ringraziamento a novembre (e i relativi giorni di sconto noti come Black Friday e Cyber Monday) e termina all’inizio di gennaio. Il risultato? Appunto decine di navi in attesa di essere scaricate. Ma c’è anche un altro aspetto da considerare osservando le portacontainer bloccate nei porti: quando un prodotto manca si è disposti a spendere di più. Rizzi evidenzia, a tal proposito, che in particolare il costo di un pallet è praticamente triplicato (da 9 a 27 euro), il costo del gasolio per autotrazione è aumentato del 40%, mentre un container è passato da 1500 dollari a 15mila dollari. Questi aumenti di costo ingiustificati non potranno che riversarsi sul costo dei prodotti finiti, da cui lo scenario che ci attende: un picco inflativo notevole a cui non corrisponderà, però, un aumento del potere di spesa delle persone.
Elisa Marasca è giornalista professionista e consulente di comunicazione. Laureata in Lettere Moderne all’Università di Pisa, ha conseguito il diploma post lauream presso la Scuola di Giornalismo Massimo Baldini dell’Università Luiss e ha poi ottenuto la laurea magistrale in Storia dell’arte presso l’Università di Urbino.
Nel suo percorso di giornalista si è occupata prevalentemente di temi ambientali, sociali, artistici e di innovazione tecnologica.
Da sempre interessata al mondo della comunicazione digital, ha lavorato anche come addetta stampa e social media manager di organizzazioni pubbliche e private nazionali e internazionali, soprattutto in ambito culturale.
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