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L’illusione dello Smart working

In occasione della festa della mamma l’insegnante di inglese dell’asilo ci ha mandato da colorare una scheda con la scritta happy mother’s day” corredata dal disegno di tre borsette accessoriate di fiocchi e fiori. Al figlio di una mia amica, in seconda elementare, hanno chiesto di imparare una poesia che recita che la mamma “lascia indietro la carriera per far luce alla mia sera”. La mia amica in tutta risposta ha mandato una mail con un testo della poesia rivisitato e più ‘attuale’, messo a punto con il suo bimbo. La maestra ha risposto rivolgendosi al bambino e ignorando la madre: “Paolo, mi spiace che la poesia non ha incontrato il tuo gusto, ma ho visto che ti sei divertito a fare il poeta”. Almeno il congiuntivo me lo sarei aspettata.

Anche nel 2020 abbiamo perso, dunque, un’occasione di passare messaggi diversi, che contribuiscano a scalfire i retaggi della società patriarcale degli Anni 50. Oggi, con la genitorialità che è ancora (troppo) un lavoro da donne e noi che siamo (ancora) economicamente più sacrificabili degli uomini, serve qualcosa che ci faccia guardare oltre i modelli e gli stereotipi di genere che la nostra generazione si ostina a proporre agli adulti di domani.

Nella retorica del maternage dei nostri giorni la maternità è ancora univocamente associata all’amore e, in generale, a universi semantici positivi, in cui non c’è spazio per la grande mole di fatiche e insicurezze e per i sentimenti negativi che da sempre le mamme sperimentano nella realtà. Quella che le istituzioni e i media si ostinano a promuovere è l’immagine di una mamma che sorride, dona, cura, accoglie, consola e a cui generalmente si associa anche un ruolo ‘produttivo’, ma confinato entro le mura domestiche.

La mamma è anche angelo del focolare, dispensatrice di pasti (confezionati con amore, ca va sans dire), carabiniere dell’organizzazione domestica, all’occorrenza puericultrice o geriatra. Le mamme sono gli ammortizzatori sociali del nostro tempo e la gestione delle politiche sociali da parte del governo durante l’emergenza Covid ce lo ha tristemente ribadito.

#iorestoacasa, da mantra a condanna

L’unica differenza rispetto a ciò che hanno vissuto le nostre nonne nel Dopoguerra è che loro potevano contare sul supporto di ‘un intero villaggio’, mentre oggi le mamme sono sole. Magari anche a fare Smart working. I nonni sono anziani, le famiglie di origine spesso sono lontane e ancora di più lo sono le istituzioni e la politica che delle mamme, quelle vere, se ne frega.

Con la nascita di un figlio una donna, dalla sua unicità di persona, diventa funzione ‘derivata’ di qualcosa o qualcuno: ‘mamma di’. Come se la maternità sancisse una netta cesura con il diritto all’autorealizzazione, che deve lasciare spazio alla devozione e al sacrificio per l’altro, sia esso un figlio o l’intero nucleo famigliare di cui la società misogina la vorrebbe ancella (o cameriera, se vogliamo parafrasare). Si smette di poter pretendere per se stesse (un lavoro, del tempo, la libertà) e si comincia a sentirsi in dovere di offrirsi all’altro per poter trovare legittimazione nell’organizzazione sociale di oggi.

E il lavoro, che per definizione è realizzazione del sé, passa in secondo piano, nemmeno fosse un lusso egoistico. In un tale contesto la vera libertà per una donna diventa il poter essere, senza giudicarsi o essere giudicata. Ecco allora che l’hashtag ‘iorestoacasa’, da mantra per superare la pandemia incolumi, si trasforma nella ferale condanna pronunciata dalla bocca di moltissime mamme, costrette a rinunciare al loro diritto al lavoro.

Ricordo che nei primi mesi da mamma provavo una grande rabbia nei confronti di non so bene chi perché la faccenda ‘non era come me l’avevano raccontata’.

Le quote rosa non bastano

Il problema è che a mettere in scena questo film sono talmente in tanti che finisci per crederci e per pensare di essere tu il personaggio che ha sbagliato palcoscenico. Persino tra mamme pare esistere una regola del ‘non dire’ che porta a evitare qualsiasi riferimento a fallimenti e difficoltà. Gli sfoghi prendono corpo solo se il male è ‘comune’ perché allora l’effetto gregge abbatte tabù, ma lo spazio che ci concediamo è ancora troppo poco e soprattutto non raggiungiamo le agorá istituzionali ‘che contano’. Abbiamo capito che le quote rosa non bastano, no? 

L’unicità con cui ogni donna è mamma ‘a modo suo’ rappresenta ancora un concetto insostenibile per una società che ci vuole tutte irregimentate in un unico, semplicistico e paradossalmente sterile modello di maternità. Una maschera inanimata, un personaggio ‘piatto’, svuotato dei violenti moti interiori e della componente emotiva che ognuna di noi sperimenta e che è parte fondante del percorso di costruzione della propria identità genitoriale.

La psicologia della catarsi della donna, che diventa ‘anche’ mamma, è bandita dalla narrazione pubblica. Eppure, dare voce alla complessità e alle contraddizioni che per natura la definiscono potrebbe contribuire a legittimare una nuova e realistica rappresentazione della figura materna e del suo ruolo nella società.

Gli effetti sarebbero devastanti, soprattutto per coloro che godono dei privilegi di questa situazione e fingono di non vedere che nella stanza c’è un’elefantessa che non può più essere ammansita con le monetine di due bonus ridicoli e l’illusione dello Smart working. È ora di aprire le gabbie.

lavoro, Smart working, maternità


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Martina Galbiati

Martina Galbiati è Responsabile Marketing della casa editrice ESTE

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