
L’ingegneria delle relazioni
“Non mi piace il mio lavoro. Mi piace il mio orario di lavoro”. Intercetto la conversazione nello spogliatoio della palestra e, timidamente, mi intrometto. “Che lavoro fai?” Chiedo. “Sono impiegata in un ufficio amministrativo, il bello del mio lavoro è che finisco alle 16”. “Forse il tuo lavoro ti piacerebbe di più se potessi dare un contributo personale, anziché svolgere semplicemente un compito”, azzardo.
Colgo nel segno, ma quanti sono gli ambienti di lavoro troppo sbilanciati su norme rigide che lasciano poco spazio al contributo individuale? Molti più di quanto possiamo immaginare e Giovanni Siri ci guida in un ragionamento che parte dalla necessità di intendere la componente umana come un elemento strutturale e strategico dell’organizzazione e della finalità dell’impresa. Tuttavia, i fattori tipici della componente umana ci portano a un perenne disequilibrio dinamico, alla capacità di generare ipotesi ma di correggerle continuamente: dovremo essere umili di fronte alla realtà, ma anche creativi. La realtà non può essere affrontata da individui singoli rinchiusi nella loro soggettività. È necessario sviluppare un tessuto di relazioni organizzate che generino appartenenza e scambio, confronto e immaginazione creativa.
Ci spiega bene l’autore che si dovranno organizzare non solo processi, funzioni programmabili e norme rigide, ma dinamiche di gruppo. Va sviluppata una vera e propria ingegneria relazionale che all’organizzazione di funzioni, ruoli e processi sappia affiancare l’organizzazione delle persone come comunità. Alla capacità di produrre attraverso la sinergia uomini-macchine-capitale si deve affiancare la progettazione dell’impresa come comunità non di individui, ma di persone e cioè di esseri umani collegati da una rete relazionale. Non è un passaggio scontato visto che l’organizzazione di stampo fordista dalla quale proveniamo è individualista e competitiva, mentre la relazione umana è sociale e cooperativa. La logica relazionale è caratterizzata da scambi gratuiti mentre l’organizzazione tipica si fonda sulla negoziazione di stampo utilitaristico. Quindi, il primo passo per far sì che la relazione si trasformi nella linfa vitale delle nostre imprese è adottare modelli organizzativi che non schiaccino le relazioni sulla dimensione unica del comando, controllo e utilità immediata.
Serve sviluppare l’empatia
È auspicabile dunque passare dalla negoziazione misurata in vantaggi materiali a una logica relazionale fondata sullo scambio e sulla fiducia. Ci troviamo di fronte a visioni vissute come contrapposte e poterle coniugare come complementari dovrebbe essere materia di riflessione. E se ci chiediamo se le relazioni hanno ancora un valore manageriale, come sottolineano Gallese e Morelli, allora significa che abbiamo un problema. Siamo esseri umani e siamo fatti di relazioni e, a differenze delle macchine noi sappiamo di sapere (e anche di non sapere). Da tempo ripetiamo come il lavoro oggi non risponda più solo all’esigenza di soddisfare bisogni primari di sopravvivenza ma rappresenti sempre più la fonte per dare significato alla nostra vita. Ma il significato deriva dal riconoscimento e il riconoscimento si genera nella relazione. E si chiude il cerchio.
Basterebbe, proseguono nell’esplorazione Gallese e Morelli, utilizzare di più e meglio un superpotere di cui tutti disponiamo e che si chiama empatia, la naturale propensione a entrare in connessione con chi abbiamo di fronte. Cosa perdiamo focalizzandoci troppo su tecnica e ruolo anziché analizzare emozioni e significati? Quanto costa alle imprese questa scarsa attenzione? E che ruolo ha giocato l’utilizzo della tecnologia, che ha rappresentato l’unico strumento che ci ha consentito di collaborare nel periodo della pandemia ma di cui ora si paventa l’abuso? Come si può esprimere empatia, come si può entrare in una relazione autentica con l’altro attraverso la mediazione di un device? Accostare la tecnologia al termine greco ‘farmacon’, che nella sua etimologia significa veleno ma anche cura, è efficace perché ci dà la dimensione del fenomeno; è uno strumento potente, ma rischiamo di rimanere anestetizzati all’interno di ambienti artificiali e indifferenziati che lasciano poco spazio all’espressione della nostra umanità. E in tali ambienti è difficile che si generino dinamiche nuove: occorre discontinuità, bisogna uscire dalle zone di comfort per non cedere all’abitudine.
Bisogna utilizzare la tecnologia in modo responsabile, senza dimenticare il valore insostituibile dell’interazione umana e dell’empatia che essa genera. Le relazioni, ci dobbiamo ricordare, non sono un elemento accessorio ma rappresentano la linfa vitale dell’azienda. Imparare a coltivarle è un nostro dovere.
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leadership, tecnologia, empatia, relazioni
