L’irresistibile ascesa del Responsabile additivi
Parmigiano Reggiano ha lanciato uno spot che è stato travolto da una violenta tempesta di indignazione mediatica. La guest star è Renatino, un addetto sulla quarantina che, mescolando la mitica miscela che dà origine a una delle punte di diamante del Made in Italy alimentare, dichiara seraficamente di lavorare in caseificio 365 giorni all’anno ed essere felice di farlo.
Renatino ammette di non aver mai visto il mare, di non essere mai andato in vacanza e di non aver mai aver visto Parigi. Sta bene lì dove sta e pare non farsi troppe domande. Un po’ come gli animali che nascono in allevamento e non sanno che il vero mondo è fuori. Renatino è “-ino”, ma non si capisce perché (o forse sì): non è ‘piccolo’ anagraficamente e garantisco che non lo è nemmeno somaticamente. Il vezzeggiativo avvicina l’ascoltatore e il protagonista, accorcia le distanze e apre alla confidenza, forse eccessiva, sicuramente ingiustificata. Quel tipo di confidenza dettata dalla supponenza di trovarsi sullo stesso piano dell’interlocutore o più probabilmente su un gradino più su e poterlo guardare dall’alto in basso.
Renatino è insomma un lavoratore inoffensivo il cui ruolo non alimenta alcun timore reverenziale: lui, per dovere di réclame, deve tendere la mano alla maggioranza, la stessa che si ricorderà, con pietas e commiserazione, della sua dedizione al lavoro quando sarà al supermercato davanti al banco frigo. In un passaggio raccapricciante dello spot, Renatino viene definito come “l’unico additivo” del Parmigiano Reggiano, quello che è lì “da 18 anni, tutti i giorni, 365 giorni l’anno”. E ti credo, gli altri –latte, sale e caglio– nel frattempo se la sono data a gambe.
Un tempo ci si scandalizzava se le persone venivano chiamate “risorse umane” perché il riferimento era troppo strumentale. Ora ci hanno sintetizzato direttamente in additivo, tipo l’Omino Bianco. Nel mezzo c’è stata la disputa tra uomo e macchina da cui, evidentemente, siamo usciti più che perdenti. Eppure, di robot nello spot non se ne vedono. Che Renatino sia, in realtà, un automa? Durante la pubblicità risponde, ma solo con alcuni cenni del capo e tenendo la testa bassa sul suo lavoro, alle domande di un gruppo variegato di giovani che, blocco note alla mano, sta facendo il giro dell’azienda e con curiosità entusiastica lo interroga: studiano la cavia come se vedessero qualcuno che lavora per la prima volta e prendono appunti.
Emerge un’ostentata discontinuità tra il mondo possibile cui appartiene il gruppo di ‘curiosi’ e quello di Renatino. Lo stupore con cui i ragazzi accolgono le placide risposte ‘dell’additivo’ fa percepire un’abissale distanza tra le parti, come pezzi di puzzle presi da scatole diverse. Nello struggente momento ripreso dallo spot in cui il gruppo di alieni-visitatori mette piede in produzione, così come lo appoggerebbe per la prima volta su Marte, si schiude il mistero relativo al mistico ingrediente che rende il Parmigiano Reggiano un prodotto d’eccellenza. Non le materie prime selezionate e nemmeno le innovazioni produttive della ricerca e sviluppo: il Parmigiano deve il suo successo al fatto che tanti Renatino immolano la propria esistenza in nome del lavoro 24 ore su 24.
Nell’universo distopico narrato nella pubblicità, il rispetto in azienda Renatino se lo guadagna con l’abnegazione, trasformandosi in un anacoreta della cagliata. Undicesimo comandamento: non avrai altra vita all’infuori di qui. Quello che nelle intenzioni iniziali avrebbe dovuto essere un messaggio di dedizione e passione che arrivano a impregnare ogni briciola del Parmigiano, finisce in una farsa di neo schiavismo, dove lo schiavo non trascina più pietre sotto l’implacabile sole d’Egitto, ma mescola la cagliata 24 ore su 24 e, soprattutto, lo fa con il sorriso leonardesco di chi pensa di aver trovato il proprio nirvana in una forma di formaggio.
Sarebbe stato tutto (quasi) perfetto, o almeno giustificato dalla stucchevole sintesi stereotipata del mezzo pubblicitario, se la presunta felicità di Renatino non fosse stata accolta dal gruppo di giovani intervistatori con ovazioni e complimenti: “Renatino posso dirti? Sei il meglio”, “Sei il migliore!”. Il tutto per rinforzare il concetto che solo se ti fai spremere fino all’ultima goccia puoi guadagnarti stima e apprezzamenti.
Davvero non c’erano alternative stilistiche per comunicare che il contributo del ‘saper fare’ delle persone è l’elemento imprescindibile per il successo di un’impresa e che è possibile creare un equilibrio virtuoso che valorizzi anziché mortificare? Dove sono finiti gli avanguardisti del lavoro per obiettivi, della settimana corta, della governance diffusa, dove sono quei giovani che le ricerche ci dicono essere attratti da aziende che permettano loro di conciliare vita e lavoro? Probabilmente sono occupati a mangiare il Parmigiano.
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