Lo Stato in Autostrade, Sapelli: “È stato un esproprio”

L’economista contro il Governo: “Manca un’idea di cosa sia la politica industriale”

La distanza tra Stato e mercato non è mai stata così corta. Il caso Autostrade arriva sulla scia di un percorso che vede lo Stato avanzare in molti settori strategici della nostra economia. Dalle Banche, all’Acciaio ai Trasporti – Alitalia è da tempo che viene tenuta in vita con i soldi dei contribuenti – nella nostra industria lo Stato torna protagonista. Con modalità riconducibili a un interventismo dal sapore quasi di stampo sudamericano e che allontanerà inevitabilmente investimenti stranieri. Per l’economista e storico Giulio Sapelli siamo già oltre l’orlo del baratro. Ma una speranza ci sarebbe, se fossimo capaci di valorizzare quell’artigianalità che ci contraddistingue e dalla quale dovremmo ripartire. Con meno laureati e più tecnici, per valorizzare competenze uniche, che nessuno potrà mai copiare.

Facciamo chiarezza, che cosa sta succedendo?

Il contesto è totalmente diverso dalla situazione che l’Italia ha vissuto nel Secondo Dopoguerra fino agli Anni 80. Allora, nel rapporto Stato-mercato, il primo era impersonificato da grandi partiti di massa che si facevano rappresentare da grandi tecnocrazie. E già l’Italia era debole. Ricordo le parole di Giuseppe Petrilli, allora Presidente dell’Iri: mi disse che fare industria di Stato, dove non c’è lo Stato, è molto difficile. Ora che lo Stato è completamente distrutto, non abbiamo più le tecnocrazie e i partiti di massa non ci sono più, pensare di riportare lo Stato nell’economia è una beffa o è un’ingiuria.

Abbiamo Cassa depositi e prestiti (Cdp)…

È vero, ma Cdp ha cose più importanti da fare e ha un prestigio troppo grande che gestire le autostrade. Ora dovremmo abbandonare la teoria delle partecipazioni statali e creare capitali not for profit.

Ci spiega?

Bisognerebbe studiare le teorie dell’intervento pubblico, fondate sui famosi libri dell’economista Elinor Ostrom che ha vinto il premio Nobel per l’Economia nel 2009. Ma siccome in Italia questi studiosi non sono conosciuti e i nostri manager di domani non leggono i testi di grandi sociologi e antropologi, non sanno che bisogna alimentare un sistema not for profit, dove l’obiettivo non è l’accumulo di capitale, ma i profitti dell’impresa servono a pagare stipendi e fare ammodernamento e manutenzione. Il caso sarebbe adattissimo per Autostrade, ma l’approccio è replicabile anche per altre attività.

L’impedimento dove sta?

Non solo non c’è lo Stato, ma non c’è il diritto e non ci sono più i manager di Stato, che la storia ci insegna essere molto più preparati dei manager privati. Il caso Atlantia è rappresentativo di una serie di errori: abbiamo sbagliato a trasformare un monopolio pubblico in un monopolio privato, perché quest’ultimo è molto difficile da controllare; molto più di quanto non sia il monopolio pubblico.

Cos’altro?

Poi abbiamo fatto una cosa molto sgradevole e cioè un contratto di concessione molto favorevole al concessionario e non al concedente, e questo durante i Governi Prodi e Berlusconi. Poi, in seguito alla vicenda del Ponte Morandi, il Consiglio di amministrazione di Atlantia avrebbe almeno dovuto avere il buon gusto etico di dimettersi. Ma immaginare di eliminare una concessione senza una riforma legislativa che la supporti vuol dire gettare l’Italia nelle braccia di un’idea venezuelana del rapporto Stato-mercato. Si tratta di un esproprio. Se vogliamo finire come un Paese sudamericano, proseguiamo pure a risolvere i problemi così come stiamo facendo.

Rischiamo una fuga di capitali?

Se la via del ritorno allo Stato è quella dell’esproprio non ci siamo, e questo avrà naturalmente come conseguenza la fuga dall’Italia di qualsiasi capitale straniero.

Uno scenario a tinte fosche…

I nostri governanti non hanno idea di cosa sia la politica industriale. Non hanno esperienza di nulla e, infatti, non riescono a implementare nulla. Se mi chiede dove saremo tra cinque anni le potrei dire nella stessa condizione dell’Argentina di Menem. Con la politica dell’ordoliberalismo non si sono fatti investimenti pubblici sufficienti e ora il sistema si sgretola.

Però non possiamo rassegnarci a fare la fine di un Paese sudamericano: cosa possiamo fare per trarci in salvo?

Ha ragione, non ci dobbiamo rassegnare. Se vogliamo salvarci dobbiamo riprendere a valorizzare il nostro artigianato, le nostre Piccole e medie imprese (PMI). Abbiamo bisogno di meno laureati e più tecnici, gente che sappia fare, che legga Platone e si allontani dai social; con meno laureati delle grandi business school e più periti, così l’Italia si salverà e i giovani si inserirebbero più facilmente nel mondo del lavoro. Oggi scappano, ma non sappiamo valorizzarli: un cameriere a Londra guadagna più di un ingegnere.

Ma tornare al piccolo non sarebbe un rischio?

Infatti non deve succedere. Dobbiamo avere un giusto mix, anche se le grandi aziende stanno scomparendo. Abbiamo imprenditori illuminati, ma le capacità dei nostri imprenditori raramente si riescono a trasferire ai figli; il passaggio generazionale resta un nodo irrisolto.

Cosa dovremmo fare?

In tempi nei quali si distruggono le statue, dovremmo erigerne di nuove, a Giordano Bruno, Arnaldo da Brescia, Fra’ Dolcino. Ribellarci ai seguaci di Maduro e Chavez e ripartire da quello che sappiamo fare.

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Chiara Lupi

Articolo a cura di

Chiara Lupi ha collaborato per un decennio con quotidiani e testate focalizzati sull’innovazione tecnologica e il governo digitale. Nel 2006 ha partecipato all’acquisizione della ESTE, casa editrice storica specializzata in edizioni dedicate all’organizzazione aziendale, che pubblica le riviste Sistemi&Impresa, Sviluppo&Organizzazione e Persone&Conoscenze. Dirige la rivista Sistemi&Impresa e governa i contenuti del progetto multicanale FabbricaFuturo sin dalla sua nascita nel 2012. Si occupa anche di lavoro femminile e la sua rubrica "Dirigenti disperate" pubblicata su Persone&Conoscenze ha ispirato diverse pubblicazioni sul tema e un blog, dirigentidisperate.it. Nel 2013 insieme con Gianfranco Rebora e Renato Boniardi ha pubblicato il libro Leadership e organizzazione. Riflessioni tratte dalle esperienze di ‘altri’ manager. Nel 2019 ha curato i contenuti del Manuale di Sistemi&Impresa Il futuro della fabbrica.

Chiara Lupi


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