Lo Stato torna nell’Ilva, ma a chi giova?
È tornato d’attualità il caso Ilva. Di recente si è analizzato sui media lo stato delle trattative fra il Governo e Invitalia, da un lato, e AM InvestCo Italy-Gruppo Arcelor Mittal, dall’altro, circa il futuro dell’azienda siderurgica: si parla del coinvolgimento di Invitalia nel capitale di AM InvestCo Italy, con quota del 50% per due anni e poi (forse) del 60% a partire dal 2022.
Sotto il profilo strettamente impiantistico, e con riferimento al sito di Taranto, si dovrebbe puntare al revamping dell’altoforno 5, uno dei maggiori d’Europa per capacità e ormai spento da anni, e dell’altoforno 1, tuttora in esercizio. Si dovrebbero inoltre introdurre due forni elettrici per conservare una capacità produttiva di 8 milioni di tonnellate annue, in grado di mantenere gli attuali livelli occupazionali.
Questo in sintesi è quanto abbiamo letto sulle varie testate giornalistiche. Ora, alla luce di tali notizie, comunque molto interessanti perché ribadiscono che l’area a caldo della fabbrica ionica verrà conservata, le domande che sindacati e vari osservatori si pongono sono tante. Proviamo ad elencarne alcune.
Invitalia entrerebbe nel capitale di AM InvestCo Italy accollandosene così pro quota le perdite che, però, non ha contribuito a generare? Non sarebbe più opportuno che esse venissero ripianate da Arcelor per poi procedere a una ricapitalizzazione percentualmente definita fra i due azionisti?
Se Invitalia divenisse socia paritetica di AM InvestCo Italy, la conduzione effettiva della società a chi sarebbe riservata? A un management presumibilmente stabilito di comune accordo? E su quali reali volumi produttivi si punterebbe, una volta terminati nell’agosto del 2023 i lavori in corso per l’Aia – che limitano oggi a 6 milioni di tonnellate la produzione, peraltro scesa nel 2020 fra i 3 e i 4 milioni – con massiccio ricorso alla cassa integrazione? In altre parole, se il mercato ripartisse con più forza in una fase post-Covid, il sito di Taranto potrebbe essere portato a fare concorrenza ai siti di Arcelor di Dunkerque e Fos sur mer in Francia? Che senso avrebbe infatti difenderne, sia pure in parte riconvertendola, l’attuale capacità di 8 milioni di tonnellate, se poi non la si volesse impiegare per intero? Per non fare concorrenza ad Arcelor che è socio in Ilva, ma anche un suo temibile concorrente?
L’occupazione che si dice di voler conservare sui livelli attuali, ovvero 10.700 addetti diretti fra Taranto, Genova e Novi Ligure, potrebbe realmente essere difesa – soprattutto nella fabbrica ionica, ove sono impiegati 8.200 fra operai, tecnici, quadri e dirigenti – quando l’introduzione di due forni elettrici richiederebbe meno manodopera non essendoci più bisogno di alcune cockerie?
Altiforni e forni elettrici sarebbero poi alimentati anche dal DRI, ovvero il preridotto di ferro? E lo si produrrebbe a Taranto, avendo però negoziato e ottenuto un prezzo del gas necessario per produrlo a prezzi convenienti, o sarebbe meno costoso se lo si acquistasse sul mercato?
E se si decidesse di produrlo nella città ionica con una nuova società, vi entrerebbero come soci anche i maggiori acciaieri italiani, come avevano dichiarato di voler fare di recente, volendo utilizzarlo con il rottame per i loro forni elettrici, per impiegarvi così meno minerale di ferro?
Rottame peraltro sempre meno disponibile anche sui mercati internazionali, e perciò sempre più costoso…
Qualora si costituisse questa società vi sarebbero impiegati i lavoratori comunque destinati a diventare esuberi nell’acciaieria con l’introduzione dei forni elettrici? E nell’attesa di procedere alla loro introduzione – impianti peraltro da ordinare, costruire, montare e porre in esercizio con gli adeguamenti impiantistici necessari a ‘valle’ – lo stabilimento, dovendo restare sul mercato, continuerebbe a funzionare con gli attuali Afo 1, 2 e 4 se il mercato lo richiedesse?
Poi, il portafoglio clienti chi lo controllerebbe? La joint-venture fra Invitalia e i francoindiani? Non si dimentichi neppure per un istante – lo si diceva in precedenza – che Arcelor sarebbe partner della società, ma anche un suo temibile concorrente: allora, tale sua condizione, già ora ma sempre più in prospettiva, non rischierebbe di creare intuibili problemi alla società in joint-venture e soprattutto al sito tarantino?
E i rapporti con le aziende dell’indotto e più in generale con il territorio, come sarebbero per la società di cui Invitalia sarebbe socia? Oggi a Taranto si registra una incomunicabilità quasi assoluta fra azienda e Istituzioni locali – anche per responsabilità di quest’ultime, a onore del vero – e rapporti difficili con molte aziende dell’indotto, peraltro bisognose di profonde ristrutturazioni che andrebbero comunque guidate.
Sono queste alcune domande che scaturiscono da quanto abbiamo letto sulla stampa. È auspicabile allora che le risposte siano puntuali, precise e assolutamente limpide e senza ambiguità, perché l’impianto di Taranto è tuttora un pilastro del sistema manifatturiero nazionale, e non sono possibili incertezze circa il suo futuro. Arcelor Mittal tutela i suoi legittimi interessi di multinazionale quotata in alcune Borse internazionali, interessi che molto probabilmente entrerebbero in rotta in collisione con quelli dello Stato italiano. E dell’industria nazionale.
Articolo a cura di
Federico Pirro
Ilva, Invitalia, Arcelor Mittal