Luoghi (fisici) dell’organizzazione
Mi ricordo la prima volta che incontrai la famosa definizione che Aristotele, nel suo libro La Fisica, dà di “luogo”: “Il luogo è il limite immobile primo del contenente”. L’impressione che ne ebbi fu di straniamento. Probabilmente l’espressione del mio viso doveva essere, più o meno, simile a quella della mucca che guarda passare il treno. Biascicavo nella mente quelle parole dal significato ‘ripido’. Cercavo appigli, agganci e legami tra i termini per sollevarmi dalla sensazione di ineluttabile gravità che mi teneva schiacciato al piano dell’incomprensione. Leggendo e rileggendo il manuale di filosofia, a un tratto, mi parve di scorgere una luce. Esclamai: “Ah! Finalmente ho capito!”.
Negli anni ho capito anche un’altra cosa. Quando si vuole studiare seriamente la filosofia, bisogna andare alle fonti, leggere i testi dei filosofi –meglio in lingua originale– confrontarsi con i dibattiti dell’epoca e con quelli che si sono ammatassati nei secoli. Per quanto utili, i manuali non bastano. Tornai quindi a La Fisica di Aristotele e quello che, una volta, mi era parso meno oscuro, ripiombò nel magma dell’aporia, della nebbia in cui si procede a lume di naso. Alla fine, l’idea che mi sono fatto del problema, tralasciando le difficoltà e le soluzioni –materia per specialisti– è che Aristotele avesse affrontato il tema con disposizione dialettica, dialogante.
Si era fatto interpellare dalle definizioni di “luogo” che davano altri filosofi e aveva cercato di trovarne una propria che fosse convincente, partendo dall’esperienza concreta. La questione dello spazio e del luogo per lui era collegata a quello della materia, del corpo, del movimento, dell’esistenza. Il luogo c’è o non c’è? Esiste o no?
Cosa significa “stare in un luogo”? Sono domande che oggi, probabilmente, non ci porremmo più nello stesso modo. Peraltro le soluzioni che Aristotele indicò mi sembrano ancora difficili da afferrare. Forse è perché non ci arrivo o perché non conosco bene il tema. Però, mi viene un altro dubbio. Può darsi che la dimensione antinomica delle sue soluzioni sia parte integrante del discorso aristotelico, del suo modo di procedere, meno tetragono rispetto a come spesso viene divulgato.
Sembra voglia dire: “La domanda sul luogo è sempre attuale e ci interroga ogni volta che chiediamo cosa significa stare in un luogo quando lo spazio cambia, sia in termini qualitativi sia dal punto di vista della rappresentazione che ce ne facciamo”. Per esempio, mi domando cosa s’intenda oggi con “stare in un luogo di lavoro”, all’epoca dello Smart working. Fino a ieri era ben chiaro. C’erano le fabbriche. Nozioni come “dentro” e “fuori” erano evidenti. Le persone erano in luoghi concreti, molto ben individuati. Lavoravano ai telai, occupavano posti negli uffici. Erano concepibili anche formule sociali proprie, come a Crespi d’Adda, in cui le persone vivevano all’interno di un villaggio operaio. In esso risiedevano e, persino, morivano sul luogo di lavoro, perché il paese, oltre alle case, alle cure, alla chiesa e ai negozi offriva un posto al cimitero.
Oggi, se vogliamo fare riferimento al ‘qui’ dell’organizzazione, non basta più il luogo fisico che, solo pochi anni fa, era quotidianità. Il senso del ‘qui organizzativo’, che pure è presente nelle nostre teste, è cambiato. Non voglio liquidare l’argomento come una questione puramente linguistica o rifugiarmi in un semplicistico riferimento a un ‘virtuale’ contrapposto a un ‘reale’. È la dimensione immaginativa quella che intendo, al luogo pensato.
Come immaginiamo il futuro luogo di lavoro? È chiaro che la percezione di luogo nella sua accezione materiale non è adeguata a rappresentare le nostre organizzazioni attuali. Tuttavia non possiamo rinunciare al luogo come forma chiusa, altrimenti facciamo fatica a identificare la nostra appartenenza. Mi viene in mente che la nozione debba essere, in qualche modo, rivisitata. Forse potremmo intenderla come posizione che ciascuno di noi occupa in uno spazio organizzativo ordinato, non necessariamente fisico, determinato prevalentemente dal tipo di relazione, di ‘link’, potremmo dire metaforicamente, che intratteniamo con l’organizzazione stessa e con gli altri. La nuova sfida è generare valore relazionale, rafforzare il legame, non prescindendo dal corpo, ma integrandolo in forme collaborative nuove, inedite, creative. Su questo si gioca la nostra scommessa di persone che s’impegnano perché altre persone lavorino bene.
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Smart working, luogo di lavoro, luogo