L’urgenza di una politica industriale
L’ultima vera politica industriale dell’Italia risale al 2016 (quella precedente ancora, si potrebbe far risalire al Secondo Dopoguerra). L’occasione era quella dell’aggiornamento tecnologico dei macchinari per la produzione, che diede vita al Piano Industria 4.0, poi aggiornato in Impresa 4.0 e più di recente diventato Rilancio 4.0. Nel mezzo – tra il ‘primo’ piano e i vari aggiornamenti a oggi – si sono succeduti quattro Governi (Renzi, Gentiloni, Conte I e Conte II) e c’è stato il passaggio di testimone di tre Ministri dello Sviluppo Economico (Carlo Calenda, Luigi Di Maio e Stefano Patuanelli).
Il problema della continuità politica è ben noto nel nostro Paese e gli effetti sono sempre più evidenti. Ma a questo limite italiano si somma la ‘repulsione’ per un piano industriale. Per qualcuno è un retaggio di una stagione ormai seppellita (“piano industriale” ricorda l’Urss dei piani quinquennali), per altri è una sfida la cui rendita a breve termine non è bilanciata dall’impegno richiesto. Siamo nell’era della performance immediata e progettare una strategia che darà risultati nel medio-lungo periodo – lasciando, forse, i benefici a chi verrà dopo e non avrà fatto troppi sforzi – non è contemplata dalla nostra classe politica.
Quindi la soluzione è assumere continuamente medicinali (amari) che giovano solo temporaneamente e rimandano il problema. Magari lasciandolo al Governo successivo, perché neppure la medicina funziona. Se consideriamo la questione lavoro, si prenda il caso dei Centri per l’impiego e il massiccio investimento in navigator, le figure professionali introdotte da Di Maio nel suo passaggio al Ministri dello Sviluppo Economico per proporre lavori ai percettori di reddito di cittadinanza.
Come ha scritto su La Stampa in un’inchiesta pubblicata sabato 29 agosto 2020, Claudia Luise – collaboratrice anche della casa editrice ESTE – considerando tutti i beneficiari del reddito di cittadinanza (2,8 milioni di persone secondo i dati dell’Inps, che tradotto vuol dire 4 miliardi di spesa nel solo 2019) appena il 3,5% ha trovato un lavoro grazie ai Centri per l’impiego, supportati dai navigator.
I numeri non devono, però, ingannare (c’è stato di mezzo il lockdown e il particolare periodo ha di certo influito). Il problema non è fare matching tra offerte di lavoro e forza lavoro; certo, le aziende sono sempre più alla ricerca di figure specializzate e quindi il recruiting si è complicato. Ma pure potenziando questo processo, la natura del problema non cambia. Prima di aiutare le persone a trovare un impiego, serve crearlo, il lavoro. Chi genera posti di lavoro? Le aziende. Ecco, quindi, che sarebbe ora di (ri)mettere le imprese nelle condizioni di svilupparsi e di crescere. Magari evitando soluzioni ‘tampone’ come gli sgravi fiscali sul nuovo personale limitati a pochi mesi (vorrei conoscere l’imprenditore che elabora piani di sviluppo mensili e non annuali!).
Aiutare le persone in difficoltà con il reddito di cittadinanza – magari rendendolo dignitoso, visto che la cifra media è di circa 500 euro che non consentono certo di vivere adeguatamente – è una dimostrazione di evoluzione civile; legarlo alla ricerca attiva di lavoro e alla formazione professionale lo è ancor di più. Elaborare parallelamente un piano di sviluppo industriale è il dovere della classe politica. La certezza – e non le soluzioni a tempo – consente di generare valore. È ora di pensarci seriamente prima che sia troppo tardi.
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