Ma chi l’ha deciso che ci rimette sempre la donna?
Immaginiamo di dare una forma grafica ai percorsi di carriera di uomini e donne in relazione alla variabile della genitorialità. Quella di una mamma sarebbe molto simile a una linea, che parte dritta e svettante verso l’alto, per poi, in corrispondenza della nascita di un figlio (ma probabilmente già dall’annuncio della gravidanza stessa), ridimensionarsi, rallentare la sua crescita, divenire più sfumata, con un andamento più piatto se non calante e, nel 46% dei casi (questa la percentuale di donne con figli che non lavora), interrompersi a metà del foglio bianco.
La linea dei papà avrebbe un andamento decisamente più omogeneo: punta verso l’alto, per poi, sovente, a partire dal punto che coincide con la nascita di un figlio, incrementare ulteriormente la propria ascesa, verso l’infinito e oltre. Perché le responsabilità aumentano e occorre migliorare la propria posizione lavorativa per provvedere ai bisogni presenti e futuri della famiglia che si è ingrandita. Oppure, semplicemente perché chi è bravo fa carriera.
La linea delle mamme interrompe la sua corsa poco prima della nascita del bambino, in corrispondenza dell’inizio della maternità obbligatoria, che dura complessivamente cinque mesi. I padri, nella stessa congiuntura, hanno (da poco) a disposizione ben 10 giorni di congedo obbligatorio, da utilizzare entro i primi cinque mesi del figlio. Uno spazio di vuoto impercettibile sulla linea di cui sopra. Giusto il tempo di annusare il nuovo nato, vederlo per più di due ore di seguito al giorno (magari sveglio), cambiare più di un paio di pannolini. Sempre che non ‘debba’ farlo comunque la madre.
Davanti a questa rappresentazione grafica, persino un cieco considererebbe più che ragionevole pretendere un deciso passo in avanti nel miglioramento delle misure di congedo, per riuscire ad allinearci alla media europea, verso un’uguaglianza di genere che non può che passare da interventi legislativi che normino nella giusta direzione la gestione della genitorialità.
Un congedo né più né meno che identico per mamme e papà sarebbe l’unico e implacabile mezzo per normalizzare una gestione equa del lavoro di cura, che è alla base di quella rivoluzione che potrebbe scardinare i pilastri su cui il patriarcato ha costruito le proprie granitiche fondamenta. Quelle che vogliono l’uomo a guadagnare soldi e la donna a casa a cambiare pannolini, nutrire ed educare. Ma, soprattutto, in silenzio e in mansueta rinuncia all’affermazione di un proprio ruolo che vada al di là di quello che dalla notte dei tempi la società le richiede: procreare e curare (i bambini, il marito, gli anziani). Una donna che deve essere grata di aver un motivo per rinunciare al proprio percorso di carriera, al vil denaro, all’indipendenza economica, quella inconsapevole dell’enorme buco creato dallo stop lavorativo nel suo patrimonio, in nome di una vocazione connaturata e romanticizzata alla cura (non remunerata).
Solo se a rinunciare a mesi, se non anni, di lavoro non saranno più solo le madri, potranno essere scardinati anche all’interno delle imprese quei meccanismi discriminatori che portano tante donne con figli alle dimissioni o a subire demansionamenti e mobbing. Se uomini e donne saranno entrambi dedicati alla cura e alla produttività in maniera identica, passeremo dal ‘problema’ della maternità a quello della genitorialità. Sarà quello il momento in cui anche il pay gap tra donne e uomini non avrà più senso di esistere: ci sarà da capire se assumerà le sembianze di un’altra discriminazione (parent pay gap?) o se sarà giunto, finalmente, il momento in cui, considerato che questa volta è anche il lavoro maschile (e pure nella fase di vita di maggior produttività) quello a cui si dovrà rinunciare, la politica assicurerà provvedimenti seri in termini di servizi alla famiglia (leggi: asili nido garantiti per tutti a costi umani), arrivando a concepire la genitorialità come un avvenimento normale (ma non scontato) della vita delle persone.
Se il 46% delle madri attualmente non lavora, non sta producendo reddito. E questo è un problema per le mamme stesse, innanzitutto, prima che per ‘il Pil’, perché significa che quasi la metà di queste donne sta perdendo di vista la propria indipendenza economica e sta asservendo al modello patriarcale che le rende dipendenti economicamente, ma non solo, dalla fonte di reddito maschile. E questa posizione è un pericoloso deterrente per il progresso sociale. Ricordiamocene quando in libreria gli ormoni della gravidanza e gli invisibili condizionamenti sociali ci faranno camminare (comprensibilmente a tre metri da terra) verso gli scaffali dei libri dedicati ai pannolini lavabili, all’alto contatto, ai 100+1 giochi di impostazione montessoriana per il tuo bambino, ossia verso quel modello prescrittivo di accudimento totalizzante, socializzato come l’unico accettabile per una madre degna di questo nome. Proviamo ad aggiungere alla nostra biblioteca di maternage una lettura di educazione finanziaria. Per poter scegliere, prendere decisioni con il giusto grado di consapevolezza e rivendicare un legittimo cambiamento di rotta.
Per informazioni sull’acquisto di copie e abbonamenti scrivi a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434400)
genitorialità, Gender pay gap, uguaglianza, diversità, Parent pay gap