La Pa vuole rinnovarsi, ma è ferma al telelavoro
Da circa un anno si discute di lavoro agile, soluzione adottata per far fronte all’imposizione del distanziamento sociale dovuto al Covid-19. Nella segreteria del mio dipartimento all’Università di Firenze, il personale amministrativo si comporta in questo modo: un giorno il singolo dipendente si reca in dipartimento dove passa le sei ore di lavoro a fare migliaia di fotocopie che stiva nelle ampie borse della spesa che ha avuto cura di portare con sé; queste fotocopie vengono portate a casa dove l’operatore passa i giorni seguenti al computer a lavorare sui documenti fotocopiati; i risultati di queste lavorazioni vanno poi inviati via mail al direttore del dipartimento affinché li stampi e vi apponga la sua firma autografa e li lasci sul tavolo, cosicché il responsabile amministrativo li possa opportunamente archiviare.
La stessa cosa si verifica un po’ in tutte le amministrazioni pubbliche con l’eccezione dell’Inps e, in gran parte, dell’Inail (eccezioni su cui ritorneremo tra poco). L’insegnamento che se ne deve trarre è ovvio: per poter realizzare il telelavoro è indispensabile che i dati e la documentazione tutta sia già registrata su supporto informatico.
Ma avere tutti i dati registrati su supporto informatico non è comunque sufficiente. È poi indispensabile che questi dati siano raggiungibili. Nel Valdarno, ma anche in molte valli dell’Appennino, in molte zone della Calabria e delle Alpi, la rete non regge comunicazioni via web. Quindi alla disponibilità del dato su supporto informatico va aggiunto il requisito di rendere questo dato raggiungibile e manipolabile da remoto. Qui il bisogno sarebbe di facile soddisfazione: basterebbe estendere la banda larga a tutto il territorio nazionale. La disponibilità della banda larga non basta. Bisogna anche prendere le misure tecniche e giuridiche necessarie a garantire la cybersecurity.
Il rispetto degli orari non garantisce l’efficienza lavorativa
Il lavoro in modalità remota richiede che il controllo sia basato non sulla presenza ma sui risultati, sulla produttività del singolo operatore. La cosa non dovrebbe cogliere impreparata la Pubblica amministrazione dopo la mole di provvedimenti legislativi dedicati (a partire dall’art. 20 del D.lgs. 29/1993 sino al D.lgs. 78/2018, passando per il D.lgs. 150/2009, noto come decreto Brunetta) alla produttività e al suo miglioramento.
Se c’è un effetto positivo che questi improvvisati e sgangherati tentativi di realizzare il telelavoro nella Pubblica amministrazione avrebbero dovuto produrre è quello di mettere in evidenza che gli innumerevoli provvedimenti legislativi dedicati alla produttività non hanno sortito alcun effetto significativo, visto che non è possibile far riferimento a queste norme per tener sotto controllo la produttività del personale che lavora in modalità remota. Nessuno sembra, peraltro, essersi accorto di questa stranezza. Il fatto è che i meccanismi di gestione della produttività vengono percepiti non come strumenti per tenere sotto controllo i risultati, ma come tanti adempimenti di tipo burocratico.
Ridurre i costi con il telelavoro
In Belgio oramai da qualche anno il telelavoro è, nel settore pubblico, un obbligo (un minimo di due giorni alla settimana) per problemi ecologici: il telelavoro diminuisce pesantemente la mobilità dei dipendenti e quindi l’inquinamento da mobilità. In Olanda sono molte le grandi organizzazioni che da diversi anni lavorano prevalentemente in telelavoro (di norma con la previsione di una sola giornata alla settimana di presenza sul posto di lavoro). In Olanda la priorità non è l’ambiente, ma la riduzione dei costi organizzativi: riduzione degli spazi di lavoro e, quindi, riduzione degli ammortamenti, dei costi di riscaldamento e di pulizia. Nel caso dell’organizzazione (pubblica e privata) olandese si tratta anche di riduzione dei costi di trasporto che in Olanda sono rimborsati al lavoratore dipendente dal datore di lavoro.
Tutto questo è possibile perché il lavoro in questi Paesi è organizzato per processi, sia nel settore pubblico che nel settore privato. Data per acquisita (da una prassi ultracentenaria) l’organizzazione del lavoro per processi –il funzionario è considerato dalla cultura giuridica quassù dominante come il responsabile dell’esecuzione di un procedimento–, il passaggio al telelavoro ha richiesto mediamente due anni di preparazione. In questi due anni si sono dovuti creare i database centralizzati e condivisi, oltre a mettere a punto tutti i motori di workflow indispensabili per la gestione dei processi.
Massimo Balducci ha diviso la sua attività tra ricerca accademica, formazione e consulenza di organizzazioni pubbliche e private. Già Full Professor di Organization Theory allo European Institute of Public Administration di Maastricht e Docente di Auditing e Controlling al “Cesare Alfieri” di Firenze, Docente stabile di European Public Management alla Scuola Nazionale di Amministrazione (Sna) di Roma. È stato Vicepresidente dello European Network of Training Organizations for Regional and Local authorities (Ento). Collabora con il Consiglio d’Europa, lo United Nations Development Program e la Banca mondiale a vari programmi di assistenza a Pubbliche amministrazioni.
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