Parità di genere: bilancio d’esercizio tra mamme e papà
Siamo in una birreria, le mamme siedono da una parte, poi ci sono i papà e vicino a loro i bambini. Iniziano ad arrivare uno dopo l’altro i piatti con cotoletta e patatine per i piccoli. Nel giro di qualche secondo rimango seduta da sola. Tutte le mamme si sono alzate, al richiamo dell’istinto (materno?), per andare a tagliare la cotoletta al rispettivo figlio e verificare che l’assetto fosse ottimale per il pasto. Mastica bene-pulisci la bocca-usa il tovagliolo.
Non avendo nessuno con cui interloquire guardo verso la scena concitata: incrocio lo sguardo di Andrea che ha appena finito di versare l’acqua a Figlia 1. Rimbalzo su Figlia 2 che sta già masticando con soddisfazione a fauci spalancate. Lentamente le mamme ritornano ai propri posti e si accomodano sulla sedia, qualcuna con un sospiro. Qualcuna riprende il discorso lasciato in sospeso come se niente fosse. Qualcun’altra si butta sulla birra in silenzio.
Verso la fine della serata Andrea mi chiede un pannolino perché Figlia 2 deve cambiarlo. Lo tolgo dalla borsa di Mary Poppins e glielo passo. Quando Andrea si allontana verso il bagno con Figlia 2 in braccio, una delle mamme mi dice: “Ma che bravo tuo marito.” E altre le fanno subito eco: “Davvero!”, “Sì, la cambia pure”. Io le fisso per qualche secondo come a ostentare che non capivo il senso di questi commenti. Ma poi decido che il silenzio non bastava, occorreva esplicitare il mio pensiero in maniera inequivocabile. “Fa la sua parte”, dico. De-mistificato il padre che si prende cura del proprio figlio, che lo fa ‘come la mamma’ dato che non è né un incompetente di natura né un menefreghista, torno ad assaporare il mio gelato. Un’altra mamma si affretta a dire: “Ah sì, anche Mauri però, adesso ha imparato!”. Mauri, per inciso, è suo marito, non un bambino. Mauri è anche lo stesso papà che, mi racconta Andrea il giorno dopo, ha passato la serata a raccontare di tutti gli sport che pratica in settimana e del calcio che vede in tivù.
Sulla via di casa, con le bimbe silenziose, ubriache di sonno, racconto ad Andrea dell’aneddoto del ‘bravo papà’. Al che lui mi riferisce dei discorsi da maschio alfa a cui ha assistito quella sera. Dice che lui ha tirato fuori il tema dei colloqui con le maestre, ma nessuno dei papà ha proseguito la conversazione. Uno addirittura ci ha tenuto a dire che ‘di queste cose se ne occupa sua moglie’. Una cena degna degli Anni 50, ci viene da dire, peccato che siamo nel 2023.
Oggi, nella giornata della Festa della Mamma, mi piacerebbe molto evitare la solita retorica che mistifica le mamme che fanno tutto e spara a zero sui papà che non fanno niente, sia perché questo dato non corrisponde appieno alla realtà (e menomale) sia perché sono anni che lo si dice, ma le cose non cambiano, o almeno non alla giusta velocità, perciò è urgente una virata decisa nella dialettica sulla maternità. Nonostante la sera in birreria ci abbia raccontato che forse quella (che evidentemente non è) retorica, serva ancora.
Nella giornata della Festa della Mamma domina il tributo della mamma acrobata, della funambola che tiene insieme tutto, che c’è sempre, che ‘ci pensa lei’, che ‘menomale che c’è’. Come se la celebrazione della sua veneranda onnipotenza potesse ripagarla delle risorse investire nel fare quello che non fanno certi padri (non tutti, per fortuna), certi mariti (perché il problema di una divisione equa del carico mentale di cura nasce a monte, nella coppia) e il welfare, per non dire lo Stato. Mi sono chiesta perché non si possa imprimere a una situazione così evidentemente non paritaria, una svolta decisa. Dobbiamo veramente aspettare anni per avere ciò che spetta a una società giusta?
Si dice che la maternità è un master, perché le competenze che coltiviamo nel lavoro di cura di un figlio si rivelano decisamente applicabili anche all’ambito lavorativo. Ebbene, forse potremmo anche impegnarci nel fare il contrario. Se un processo all’interno delle nostre organizzazioni notiamo che non gira, se qualche competenza appare scarsa, se gli investimenti superano i risultati ottenuti, se le risorse non sono sufficienti: in tutti questi casi si lancia un allarme e si cerca una soluzione. A volte saltano teste. Corsi di formazione per la qualunque, analisi dei processi, efficientamento delle risorse. Il tutto lavora nella direzione del miglioramento perché un’impresa che non performa non ha futuro.
Tutto questo impegno dovrebbe essere traslato anche all’ambito familiare, alla ricerca della performance migliore, per la creazione di un’organizzazione in cui tutti gli attori siano coinvolti nella creazione e nella spartizione di valore, con beneficio di tutti. Il che non significa contare le ore e i minuti lavorati, ma lavorare per obiettivi (comuni). Il che non significa dividersi diritti e doveri con il righello, ma tirare una linea a fine mese per fermarsi e fare un bilancio occhi negli occhi, quello sì. Perché se in ufficio occorre sapersi prendere responsabilità, occorre farlo anche, e soprattutto, nell’organizzazione familiare. Nessuno ci farà un bonifico a fine mese per questo, ma del resto nemmeno le mamme lo hanno mai ricevuto. E guardate dove ci hanno portato.
maternità, HR, parità di genere