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Parità di genere e maschile sovraesteso: che fine fa l’inclusione?

Partiamo da una considerazione che è bene sempre tenere a mente: in italiano il genere neutro non esiste. Contrariamente ad altre lingue, come l’inglese che prevede l’uso di “they” per riferirsi a uomini e donne, nella nostra, per convenzione, si usa il maschile sovraesteso: vuole dire che per riferirsi a un pubblico composto da donne e da uomini è linguisticamente corretto accogliere le persone dicendo “benvenuti a tutti”.

Da tempo, però, si è consapevoli che le parole sono i contenitori di un pensiero e che utilizzare solo il genere maschile equivale a non voler vedere che, in un’ipotetica platea, ci sono anche le donne. Di tentativi per superare il maschile sovraesteso ce ne sono stati diversi: c’è chi usa l’asterisco (“buongiorno a tutt*”) oppure ricorre alla schwa (“Buongiorno a tuttƏ”). Con un può di buonsenso si potrebbe semplicemente dire: “Buongiorno a tutte le persone”.

Se questi sono i modi inclusivi per cercare di risolvere la questione, una recente proposta di legge per l’uso del maschile sovraesteso – poi ritirata nella mattinata del 22 luglio 2024 – andava nella direzione opposta. La proposta era stata firmata dal senatore leghista Manfredi Potenti, e vietava l’uso del genere femminile per i neologismi applicati ai titoli istituzionali dello Stato, ai gradi militari, ai titoli professionali e alle onorificenze in tutti gli atti e i documenti pubblici. Secondo la proposta non si sarebbe potuto più scrivere “sindaca”, “avvocata”, “rettrice”, perché chi lo avesse fatto, sarebbe stato sanzionabile con una multa fino a 5mila euro. Dunque, si sarebbe tornati all’uso del maschile anche per quelle posizioni ricoperte dalle donne.

L’inclusione passa (anche) dal linguaggio

Al tema dedicheremo la puntata di venerdì 26 luglio 2024 di PdM Talk, il talk show del nostro quotidiano, in onda dalle 12 alle 13 sui canali digitali della casa editrice ESTE (pagina Linkedin ESTE, canale YouTube di Parole di Management, home page di Parole di Management e App ESTE, scaricabile gratuitamente a questo link). Intanto, però, iniziamo la riflessione, perché anche se è stata ritirata, la proposta di legge può essere letta come un passo indietro sulla parità di genere e sull’inclusione: è lecito accettare che non ci sia un’alternativa? Scegliere di usare anche il femminile, infatti, è un gesto di cura e di inclusione.

Poi c’è un altro aspetto: il disegno di legge parlava di “neologismi” legati al genere di alcune parole. Eppure in italiano esistono i corrispettivi femminili di alcuni appellativi. L’Accademia della Crusca è l’autorità indiscussa in materia di lingua italiana, e ha più volte sottolineato l’importanza delle declinazioni femminili degli appellativi maschili, specificando che il femminile guadagna posizioni ogni giorno in italiano, specie nei titoli di mestiere e professione. Eppure c’è qualcosa che continua a non funzionare.

Per esempio alla parola maschile “ingegnere” corrisponde quella femminile “ingegnera”, ma siamo poco abituati a utilizzarla. In tal proposito, è illuminante il pensiero di Irene Facheris, Presidente dell’associazione no profit Bossy (una comunità di divulgazione e proposte d’azione su tematiche quali stereotipi di genere, sessismo, femminismo e diritti Lgbtq+) e autrice del podcast Tutti gli uomini, nel quale alcune voci maschili si raccontano affrontando il ruolo del maschile nell’eliminazione della violenza di genere. Facheris dice che certe parole ‘suonano male’ perché non siamo abituati a utilizzarle. Ma poi si chiede: perché questo ‘suonare male’ vale solo per i titoli legati alle posizioni di potere?  Nessuno si è mai opposto nell’utilizzare “contadina” per indicare una donna che coltiva la terra, ma ci si scandalizza se si dice “avvocata” e non “avvocato”.

Accettare una nuova parola può sembrare difficile all’inizio, ma con il tempo diventa normale e rispettato. Esempi virtuosi in questa direzione sono “dottoressa” e “professoressa” ed è anche grazie all’utilizzo di questi termini che le donne hanno potuto così accedere a professioni che un tempo erano riservate solo agli uomini: il linguaggio, infatti, è un potente strumento di inclusione e di riconoscimento delle identità. Se si vietasse l’uso delle declinazioni femminili si rischierebbe di bloccare un percorso di parità di genere, anche in azienda: come possono le donne immaginarsi in ruoli di leadership se per quelle posizioni ci sono solo appellativi al maschile?

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Dario Colombo

Articolo a cura di

Giornalista professionista e specialista della comunicazione, da novembre 2015 Dario Colombo è Caporedattore della casa editrice ESTE ed è responsabile dei contenuti delle testate giornalistiche del gruppo. Da luglio 2020 è Direttore Responsabile di Parole di Management, quotidiano di cultura d'impresa. Ha maturato importanti esperienze in diversi ambiti, legati in particolare ai temi della digitalizzazione, welfare aziendale e benessere organizzativo. Su questi temi ha all’attivo la moderazione di numerosi eventi – tavole rotonde e convegni – nei quali ha gestito la partecipazione di accademici, manager d’azienda e player di mercato. Ha iniziato a lavorare come giornalista durante gli ultimi anni di università presso un service editoriale che a tutt’oggi considera la sua ‘palestra giornalistica’. Dopo il praticantato giornalistico svolto nei quotidiani di Rcs, è stato redattore centrale presso il quotidiano online Lettera43.it. Tra le esperienze più recenti, ha lavorato nell’Ufficio stampa delle Ferrovie dello Stato italiane, collaborando per la rivista Le Frecce. È laureato in Scienze Sociali e Scienze della Comunicazione con Master in Marketing e Comunicazione digitale e dal 2011 è Giornalista professionista.

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