Patagonia e la sostenibilità oltre le dichiarazioni di intenti
È noto che il concetto di sostenibilità (che triangola ineluttabilmente fattori economici, sociali e ambientali per una crescita condivisa e inclusiva) richiede azioni più che dichiarazioni (pensiamo ai diffusi casi di greenwashing). Abbiamo esempi molteplici di imprese che scelgono strade ‘ortodosse o eterodosse’ – e altre che continuano a non scegliere – per affermare questa strada che è necessitata per la sopravvivenza del Pianeta, ma anche per la sopravvivenza del capitalismo e dunque della democrazia come la conosciamo dall’Illuminismo al 1789 fino alle guerre mondiali, allo choc pandemico e al conflitto ucraino attuale. Una strada che è necessaria per riportare in equilibrio uomo e natura, tecnologia e conoscenza, etica e business, individuo e comunità.
Ma quando un imprenditore globale come Yvon Chouinard, fondatore di Patagonia e con una ricchezza stimata di 1,2 miliardi di dollari afferma che “siamo in affari per salvare il Pianeta” perché è “il nostro unico shareholder”, allora siamo sul crinale eterodosso. Perché a queste dichiarazioni sono seguite azioni conseguenti con la cessione di tutta la proprietà dell’azienda a due nuove entità (Patagonia Purpose Trust e Holdfast Collective), diventando in questo modo una B Corp certificata e una società di beneficenza della California per contrastare al meglio il riscaldamento globale attraverso un cambiamento radicale delle azioni di gestione e governance dell’azienda, e influenzando appropriatamente clienti, manager, dipendenti e partner.
Patagonia sulle orme di Adriano Olivetti
L’azienda è partita innanzitutto dall’eco-design per una logica circolare, riducendo gli sprechi e contenendo i danni al Pianeta con l’uso responsabile delle risorse interne ed esterne fino all’intera catena di fornitura (dall’acqua, all’energia, alle materie prime) e alla valorizzazione delle persone e della comunità con azioni concrete di tipo filantropico (donando l’1% dei ricavi ogni anno). Ha quindi colto a fondo il legame tra impresa e comunità di riferimento alla ricerca di una simbiosi generativa. E scegliendo questa strada diretta di contribuire al miglioramento dell’ambiente, è diventata una azienda d’affari che ha cambiato modo di produrre e consumare, essendone direttamente responsabili, senza delegarlo ad altri con una public company o vendendo a fondi e dunque rispondendo a uno scopo vitale.
Il disegno di governance di Chouinard è stato – in sintesi – il seguente, come emerge dalle sue stesse parole: “Il 100% delle azioni con diritto di voto della società è trasferito a Patagonia Purpose Trust, creato per tutelare i valori dell’azienda; e il 100% delle azioni senza diritto di voto è devoluto a Holdfast Collective, un’organizzazione no profit dedicata alla lotta alla crisi ambientale e alla difesa della natura. I finanziamenti arriveranno dall’azienda: ogni anno, i soldi che guadagniamo dopo aver reinvestito saranno distribuiti come dividendi per aiutare a combattere la crisi”.
Su una tale architettura di governance Chouinard ha costruito le basi per realizzare il migliore accoppiamento tra business, etica e crescita responsabile come avevano, tuttavia, già fatto da tempo Adriano Olivetti (oltre 50 anni fa) e più di recente Leonardo del Vecchio e Brunello Cucinelli, guardando all’eredità di un mondo da cambiare, ognuno con approcci differenziati. Sarà sufficiente ? Forse no, ma la strada da intraprendere è ben delineata sia per percorsi ‘ortodossi’ sia per quelli più ‘eterodossi’, generando fiducia e partecipazione tra inclusione e responsabilità, rimettendo al centro le persone, di aziende e istituzioni, di comunità e territori con una politica più inclusiva e dal basso.
Manca la partecipazione di manager, lavoratori e stakeholder
È chiaro che solo un (post)capitalismo che si avvia lungo questa strada di sostenibilità per business responsabili e agendo per proteggere le risorse ambientali potrà dare un contributo fondamentale a una crescita sostenibile di lungo periodo e alla sopravvivenza del Pianeta, ma ciò che sembra ancora mancare in questa traiettoria è la partecipazione di manager, lavoratori, clienti e delle loro comunità territoriali di appartenenza.
Tutto questo vuol dire partecipazione alle performance e agli utili connessi a incrementi di produttività (di cui qualcosa abbiamo già in atto anche in molte aziende italiane, attraverso le politiche di welfare i cui incentivi andrebbero tuttavia irrobustiti, ma da connettere alla sostenibilità ed emissioni di anidride carbonica). Ma vuol dire anche partecipazione all’organizzazione del lavoro secondo logiche di auto-organizzazione e responsabilizzazione all’autonomia per team project o isole che guardino a obiettivi di sostenibilità con eco-environment design di nuovi prodotti che accrescendo la loro vita media, rispondano rigorosamente a logiche circolari (minimizzando gli scarti non riutilizzabili e massimizzando le quantità da reimmettere nel ciclo produttivo azzerando i rifiuti da inviare a smaltimento) lungo percorsi di democratizzazione ambientale del lavoro.
A tal proposito si pensi alle auto, alle lavatrici o agli elettrodomestici (bianchi o brown), agli oggetti vari di uso comune per case o uffici, ma anche alle abitazioni realizzate con prodotti riciclabili (tipo legno), energy saving e fono assorbenti, smontabili e rilocalizzabili per risparmiare suolo; e ancora a un food salutistico che minimizzi impatti ambientali e sulla salute e dunque sulle spese sanitarie.
Partecipazione è anche al rischio d’impresa, ossia con coinvolgimento negli assetti proprietari come allargamento delle basi societarie per sviluppare percorsi di crescita orientati ad innovazioni eco-sostenibili; e infine alla vita di comunità inclusive per sviluppare resilienza.
L’innovazione che consideri le sfide ambientali e sociali
Dunque serve incentivare gli attori fondamentali per partecipare ai rischi crescenti di una impresa che richiede innovazione sostenibile e che gli shareholder di per sé non sono – e non saranno – più in grado da soli di fronteggiare senza ricorrere a molteplici fonti di capitale (dopo il debito bancario e la capitalizzazione di Borsa) o cedendo anche parte del controllo a fondi ESG (quelli cioè che rispettano gli indicatori ambientali, sociali e di buona governance). Il coronavirus non solo non ha intaccato la crescita della finanza sostenibile, ma dallo scoppio della pandemia, green bond e fondi che integrano i criteri ESG si sono dimostrati più resilienti secondo la Banca centrale europea. La Bce, infatti, nel Financial Stability Review ha confermato che “la resilienza degli strumenti di finanza verde durante le recenti turbolenze del mercato suggerisce che gli investitori non devono sacrificare le prestazioni per favorire la transizione verso un’economia più verde”.
La finanza sostenibile da anni avanza e a livello globale gli asset dei fondi con mandato ESG crescono del 170% dal 2015. La pandemia ha consolidato questa tendenza, convincendo gli investitori a orientare i propri capitali verso una finanza sostenibile. Solo nell’ultimo anno, infatti, l’esposizione dei settori dell’area dell’euro nell’aggregato ai fondi ESG è aumentata del 20%. Nel primo trimestre del 2020 le istituzioni finanziarie e le famiglie europee hanno ridotto le proprie partecipazioni in fondi non ESG, con un calo tra l’1% e l’8%, a seconda del settore dei detentori, preferendo fondi che integrano criteri ambientali, sociali e di buona governance, in aumento tra 4% e 10%.
Altrimenti l’azienda può cedere il controllo a ‘soci affidabili’ (di prossimità o più esterni): esploriamo gli assetti sociali allargati di quelle azioni con diritti di voto e di quelle senza diritti di voto verso dipendenti, manager e clienti o verso stakeholder più esterni. Lungo questo crinale scopriamo l’accensione di nuove competenze e perciò di potenziale creatività negli apporti all’intelligenza collettiva di una organizzazione, mettendo in comune soprattutto valori condivisi e non lasciarli alla ‘caducità’ di quelli limitatamente familiari, parentali o amicali e in contrasto con le sfide di rischio emergenti che sono anche – e forse – soprattutto di conoscenza, di intelligence e di competenza per generare resilienza.
Questo è il nodo di lungo periodo di una sostenibilità responsabile e forte che sia capace di alimentare nella complessità della transizione ecologica, entro una crescita di lungo periodo quella Open innovation che sia ambientale e sociale, condivisa e solidale; capace quindi di ridurre le diseguaglianze di accesso alle risorse, condividendo la ricchezza prodotta ed espandendo le capacità creative e intelligenti di shareholder e stakeholder di condivisione dei rischi nella responsabilità e sostenibilità. È ciò che emerge anche dalla lettera di Steven Capito, Presidente di Black Rock, ai manager delle partecipate nel mondo stimolandoli a seguire con risolutezza percorsi sostenibilità e responsabilità al prezzo eventuale di disinvestimenti nel caso di ‘ritardi’ nell’abbandono dell’uso delle risorse fossili.
Alla ricerca di una nuova relazione esseri umani-natura
È evidente che dovremo sterzare velocemente da assetti, scelte e culture attuali saldando dunque attraverso una faglia partecipazionista (e dal basso di una impresa come collaborative community) il meglio dei rapporti Stato-mercato dei tre capitalismi, ma alla ricerca di più avanzate relazioni tra gli esseri umani e la natura: quello anglo-americano (Borsa-centrico), quello europeo (banco-centrico) e nippo-renano (comunità-centrico). Serve evitare, possibilmente, che ancora una volta il capitalismo si adatti in forme camaleontiche a ogni forma di Stato e di mercato con quantum democratici a corrente alternata, nell’illusione di una neutralità tecno-scientifica e politica verso l’ambiente a ‘protezione’ di tradizionali assetti di controllo. Si vedano, a tal proposito, le tante varianti di capitalismo in base a difformi gradienti democratici (che spesso sono anche di uso delle risorse ambientali): dalle ‘democrature’ come Russia e Turchia e ora anche Ungheria (visto la votazione del 15 settembre 2022 del Parlamento europeo) alle ‘autocrazie partitiche’ come la Cina o alle monarchie assolute come per molti Paesi arabi.
Così come dovremo ‘piegare’ sistemi fiscali appoggiati a criteri quantitativi (e irreversibilmente progressivi) iniettandovi robusti standard qualitativi (ma misurabili) di sostenibilità dalle famiglie alle imprese alle istituzioni quale criterio orizzontale di mitigazione della progressività della tassazione: minori sprechi di acqua (per esempio maggiore uso di acqua piovana per usi domestici) ed elettricità (da rinnovabili o con cessione alla rete pubblica) e minori costi; incentivi premiali crescenti con minori rifiuti prodotti e/o minore produzione di anidride carbonica; incentivando lavoro e/o impiantistica a basse emissioni; detassando prodotti che approssimano l’azzeramento dell’anidride carbonica locale e/o di filiera-network-distretto-comunità-regione. Si tratta di meccanismi del tutto misurabili in forme altamente personalizzate e automatizzate sia per famiglie sia per imprese, dato che conosciamo analiticamente le emissioni di anidride carbonica o di metano per ogni attività umana, animale, vegetale o meccanica con precisi strumenti di Lyfe cycle assessment (LCA) esplorando i migliori equilibri dinamici tra eco-efficienza ed eco-efficacia.
Questo l’orizzonte della sfida alta che attende il Pianeta e i suoi tanti capitalismi per una crescita sostenibile, condivisa e solidale dato che le risorse della Terra – come noto – sono finite e tuttavia abbiamo una possibilità di mitigazione con l’uso diretto delle rinnovabili (sole, vento, onde, geotermico, luce-fotovoltaico) e con un loro uso indiretto per produrre idrogeno, in attesa anche di un’energia nucleare di quarta generazione (da fusione a confinamento magnetico e non da fissione) altamente sicura e basse scorie.
Professore Ordinario presso il Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali, Università degli Studi di Milano
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