Patto per la Pa, rivoluzione solo a parole?
Il grande Goethe diceva: “Sulle rose si possono fare poesie, le mele bisogna morderle”. Questa premessa è essenziale, perché il tema di cui si parla, per ora, è solo una rosa, ma poi bisognerà vedere se si riuscirà davvero a trasformarlo in una mela da mordere…
È stato chiamato “Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale” – un roboante titolo – l’accordo sottoscritto il 10 marzo 2021 tra la Presidenza del Consiglio, il Ministro per la Pubblica Amministrazione Renato Brunetta e Cgil, Cisl e Uil.
L’accordo è piombato come un sasso nello stagno nella discussione, sinora sviluppatasi soprattutto nel settore privato, sulla necessità di cambiamenti strutturali nelle relazioni sindacali per adattarne i contenuti all’evoluzione della società. Tutto ciò in un’ottica di trasmigrazione verso forme più moderne e flessibili per il futuro, ma nel contempo di puntello reciproco di comune utilità anche per affrontare i gravi problemi di natura economico-sociale derivanti dalla pandemia e dal suo impatto assai negativo sulla vita – lavorativa e privata – degli italiani, del quale restano comunque da misurare anche gli effetti di trascinamento nel breve medio periodo.
È pertanto comprensibile che il tema abbia riscosso da subito un notevole interesse mediatico e che buona parte dei commentatori l’abbia considerato come una vera e propria ‘rivoluzione copernicana’ nell’area del pubblico impiego, tradizionalmente considerata affetta da una serie di questioni per così dire ‘irrisolvibili’, in primis quella dell’eccessiva burocratizzazione di tutte le procedure e dell’impianto strutturale di un sistema di relazioni sindacali incrostato da corporativismi di vario tipo e del tutto disattento allo sviluppo dei concetti di produttività e meritocrazia.
Verso una nuova stagione di concertazione
A prescindere dalla fondatezza o meno di dette accuse, non si può negare che lo stesso titolo del patto implicitamente riconosca l’esistenza di una serie di problematiche pregresse, quanto meno nel senso di ostacoli da superare – l’uso del termine “innovazione” lo presuppone di per sé – e, nel contempo, contenga un’altra affermazione molto forte, cioè il richiamo alla “coesione sociale” che potrebbe far considerare pure l’evoluzione delle relazioni sindacali quale fulcro importante per raggiungere questo obiettivo.
D’altronde Woody Allen diceva ironicamente (ma solo fino a un certo punto) che “per fare una rivoluzione ci vogliono due cose: qualcuno o qualcosa contro cui rivoltarsi e qualcuno che si presenti e faccia la rivoluzione”. Nella fattispecie il ‘qualcosa’ contro cui rivoltarsi sarebbe la vetustà della Pubblica amministrazione e il “qualcuno che faccia la rivoluzione” dovrebbero essere i firmatari del patto, cioè i due attori principali dello show (il Governo e i tre sindacati storicamente considerati i più importanti, anche se nel pubblico impiego il fronte sindacale è molto più vasto e articolato) che si sono esposti dichiarandosi decisi a procedere “strategicamente” su questa via.
Perciò mancherebbe soltanto (e non è certo cosa da poco) il fare concreto rivoluzionario, cioè la produzione di risultati effettivi, perché già Jean-Paul Sartre ricordava che “la rivoluzione non è una questione di merito, ma di efficacia, e non vi è che ciò. C’è del lavoro da fare, ecco tutto”. Già, ecco tutto. Ma di questo “tutto”, al momento, di pratico non vi è ancora nulla e quindi sembra troppo presto per abbandonarsi a facili entusiasmi.
Ciò non vuole ovviamente condurre a una sottovalutazione della portata (se storica lo dirà per l’appunto solo la storia) del patto, bensì solo rammentare che si tratta di un accordo soprattutto ‘politico’ (e di protocolli sul pubblico impiego ispirati a mere ragioni elettoralistiche o di pace sindacale non seguiti dalle necessarie azioni concrete se ne sono già visti in passato) e come tale va ora valutato (in tutto i suoi chiaroscuri).
Tuttavia in parte l’accordo contiene un aspetto, questo sì, potenzialmente utile a rafforzarne il peso, cioè il fatto che si tratti – come giustamente sottolineato da qualche commentatore – del primo atto di natura globale economico sociale del Governo Draghi. Sotto questo specifico profilo la scelta di condivisione con la parte sindacale rappresenta di per sé un messaggio limpido circa le intenzioni di metodo dell’Esecutivo stesso per quanto concerne la volontà di dialogo e di confronto a priori. Qualcuno addirittura ha parlato di un revival di quella concertazione che fu il cavallo di battaglia del Governo Ciampi nei primi Anni 90.
Prima risposta alle richieste che fa l’Europa
Proprio per le ragioni sopra indicate, il testo del patto è sostanzialmente generico (ma negli accordi politici di quel tipo è una scelta quasi obbligatoria) con il pregio però di una chiara indicazione di percorso, innovativa rispetto alle abitudini passate, cioè l’indicazione del “principio di fondo” che rappresenta l’architrave del nuovo sistema di relazioni sindacali che si vuole ora perseguire.
L’innovazione nella Pa è vista adesso come momento di trasformazione, approfittando paradossalmente della crisi innescata dal Covid-19, di un sistema socio-economico, migliorando i servizi a famiglie e imprese all’insegna di una sostenibilità non solo ambientale, ma anche sociale, istituzionale e occupazionale (è scritto a pagina 1 del patto). In tale contesto “il ruolo della Pa in qualità di motore di sviluppo è in questo senso centrale” e quindi l’intervento dovrà muoversi su due direttive: “Investimenti in connettività con la realizzazione di piattaforme efficienti e di facile utilizzo da parte del cittadino, aggiornamento continuo delle competenze dei dipendenti pubblici, anche selezionando nelle assunzioni le migliori competenze e attitudini in modo rapido, efficiente e sicuro, senza costringere a lunghissime attese decine di migliaia di candidati” (pagina 2).
Come si può agevolmente comprendere, si tratta né più né meno di un tassello del quadro complessivo di applicazione delle riforme che la stessa Europa ci chiede per gestire correttamente i fondi del Piano Next Generation EU e in tal senso il patto può forse rappresentare un primo tentativo di applicazione di un ‘metodo Draghi’ che miri a suddividere in più azioni pragmatiche e snelle l’intervento su singoli punti critici che potrebbero ostacolare l’attuazione di quanto richiesto da Bruxelles. Queste azioni si dovrebbero tradurre in altrettante intese segmentate con le organizzazioni sindacali competenti, in un’ottica comunque attenta a mantenere un fil rouge tra le singole intese in modo da far loro assumere quel ruolo di “investimento politico e sociale” citato a pagina 3 del patto, che dovrebbe a sua volta caratterizzare tutti i rinnovi contrattuali nel pubblico impiego.
Questa scelta di metodo giustifica quindi l’ampio spazio – dato nei punti da uno a cinque alle pagine 5 e 8 del patto – alle innovazioni in materia di procedure per la negoziazione del contratto collettivo nazionale quadro o comunque di contrattazione collettiva di competenza del triennio 2019-21 (previsione, come si noterà, oggettivamente in ritardo…) affidata all’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (Aran), ma da gestire in conformità agli atti di indirizzo governativi che saranno emanati a breve.
In proposito va peraltro sottolineato che il Ministero della Pubblica Amministrazione ha già convocato i sindacati rappresentativi del pubblico impiego per l’avvio delle trattative per il rinnovo, essendo già pronta una bozza degli atti di indirizzo appena citati. Insomma, se son rose fioriranno, ma comunque, per le mele da mordere, come diceva Goethe, bisognerà aspettare ancora.
Docente a contratto di Diritto per l’Ingegneria all’Università Luic Carlo Cattaneo di Castellenza. Sulla rivista ESTE Sviluppo&Organizzazione cura la rubrica ‘Gli scenari del lavoro’ in cui analizza le dinamiche complesse del lavoro, innescate da fattori sociali, tecnologici, giuridici e contrattuali.
Sindacati, Pubblica amministrazione, governo draghi, Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale