Paura di essere incinta

Mentre scrollo il feed di LinkedIn la mia attenzione viene catalizzata da un’immagine che riconoscerei tra mille. Un bianco e nero che porta con sé un arcobaleno di emozioni: l’immagine ecografica di un bimbo nella pancia. Dopo un iniziale afflato di tenerezza provo fastidio per quell’esserino lanciato in pasto ai commenti degli utenti della pubblica piazza, su un social network professionale. Clicco sulla foto dell’autrice del post senza pudore: una ragazza di 30 anni, fondatrice di un incubatore digitale di startup che gestisce insieme con il compagno.

La ragazza annuncia di incubare un altro genere di startup. Parole di gioia e incredulità (perché “i medici avevano detto che era impossibile”) che ben presto cedono il passo ad altro. “Avevo timore di dire al team e agli investitori che sono incinta. Avevo timore di deludere aspettative…”. “Non sarò meno imprenditrice perché mamma”. Mi viene un groppo in gola. “Grazie al team che mi ha dimostrato entusiasmo. E grazie agli investitori che hanno dimostrato per l’ennesima volta che quando si investe in una startup si investe nelle persone”.

Con la chiosa mi cadono le braccia. Il cuore perde un battito per lo sconforto. Mi viene da piangere per questa ragazza che sente di dover giustificare la scelta di avere un figlio di fronte a un indefinito ‘team’ e soprattutto agli ‘investitori’. Gli investitori. Letteralmente: “Quelli che ci mettono i soldi”. Che attribuiscono un valore, un peso. Che fanno il prezzo. Il prezzo che è convinta di dover pagare questa neomamma che, invece di crogiolarsi nel meraviglioso pensiero del miracolo della vita, deve pensare a quattro stolti che potrebbero non voler più investire nella sua azienda.

Non mi capacito di come si riescano ad accostare sullo stesso piano di senso l’immenso significato di una vita che nasce con il numero in basso a destra del bilancio d’esercizio. Una bestemmia, ontologicamente parlando. Eppure, è lì, tutto nello stesso post, uscito dalla tastiera di una ragazza felice e anche spaventata. Ma dalle cose sbagliate. Spaventata dal fatto che in azienda potrebbero non volerla più (come guida o come investimento) perché si concede di mettere al mondo una persona nuova, un seme di futuro.

Come siamo arrivati a questo punto? Come è successo che una donna voglia annunciare una gravidanza su LinkedIn come se si trattasse di un comunicato price sensitive destinato agli azionisti? Perché ringraziare le persone che lavorano con lei per la clemenza con cui accolgono la notizia e gli investitori per non abbandonarla in una fase della vita che, a quanto pare, nulla può offrire e tutto può rovinare a livello di rendimenti aziendali?

Mi piacerebbe spiegare a questa futura mamma che quando annuserà per la prima volta il suo bambino della sua azienda le importerà ben poco. Almeno per un po’ di tempo. Perché tutte le carte in gioco verranno rimescolate, le priorità scardinate, i limiti abbattuti. Tutto sembrerà possibile quando ciò che era prima verrà raso al suolo dall’immane potenza creatrice che pulserà tra le sue braccia.

Mi piacerebbe che si aprisse alla possibilità di accogliere qualcosa di grandioso e sconosciuto scrollandosi di dosso i timori instillati dal cinico orizzonte economico in cui è inserita, e soprattutto la palta di misoginia con cui le donne che desiderano avere figli senza rinunciare al proprio lavoro devono sporcarsi ancor prima di partorire.

Pietropolli Charmet, psichiatra e psicoterapeuta, dice che “È successa una catastrofe. In pochi anni e con un’accelerazione imprevedibile sono spariti il patriarcato e il suo rappresentante più noto, il padre.” Peccato che al posto del padre ora ci siano ‘gli investitori’. Quando verrà il tempo per le donne di poter essere libere di tracciare il proprio percorso di vita senza giustificarsi, senza chiedere il permesso e dover rendere conto a qualcuno?

Finché ringrazieremo i papà perché cambiano i pannolini, i datori di lavoro perché ci concedono la maternità o il Governo per aggiungere un giorno in più al congedo di paternità, finché ringrazieremo altri per dare spazio a un nostro diritto resteremo sempre concessionarie di un lasciapassare. E vivremo nella smania malata di dover costantemente meritare o dimostrare qualcosa a qualcuno cui affidiamo il grande potere di definirci e giudicarci.

Martina Galbiati cura la rubrica “Risorse Umane e non Umane” sulla rivista Persone&Conoscenze.
Per informazioni sull’acquisto scrivi a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434400)

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Martina Galbiati

Martina Galbiati è Responsabile Marketing della casa editrice ESTE

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