Per un management maestro per il bene comune
Goethe scriveva: “Come merito e fortuna siano concatenati, non viene mai in mente agli stolti”. In una recente ricerca svolta da studiosi danesi e statunitensi, si è esplorata una domanda particolarmente sensibile: come sono correlati gli effetti sul sistema economico-finanziario con i percorsi di studi manageriali? Per chi volesse approfondire, il titolo originale dello studio è: “Eclipse of rent-sharing: the effects of managers’ business education on wages and the labor share in the Us and Denmark”.
Lo spoiler lo serviamo immediatamente: i manager, formati attraverso i tradizionali e sempre più inaccessibili percorsi di educazione, produrrebbero tutt’altro che effetti espansivi sulla crescita di benessere non solo dei dipendenti, ma pure del sistema di stakeholder più allargato.
Certi miti, però, bisogna attaccarli con molta convinzione, se non si vuole rimanere vittime della reazione veemente, mistico-retorica, da parte di chi ancora propugna una visione salvifica dell’economia classica e dei suoi grandi eroi che sarebbero, per l’appunto, i manager con mandato divino di arricchirci tutti. Deve essere per questo che il gruppo di studiosi correla montagne di dati che si fa fatica a non prendere molto su serio, con l’effetto conseguente di domandarsi: “Ma cosa stiamo facendo?”.
In sostanza quello che viene meno è il mito tecnocratico su cui tendiamo a fondare l’idea stessa di ‘lavoro ben fatto’. La bibbia tecnica, cui sono esposte le giovani e rampanti menti moderne, finisce per produrre funzionari poco ‘sensibili’ agli impatti di sistema, troppo impegnati a guardare il dito che scorre sugli indicatori di breve periodo, di corto raggio e di micro-buonsenso. Certo, siamo costretti a rimettere la fionda nella borsa e, prima di impallinare ogni manager (a partire da noi stessi) della nostra rubrica telefonica, dobbiamo domandarci come si sia arrivati a questo.
L’establishment si autoalimenta sin dalla formazione
È una questione di formazione? Si domanda la ricerca. E se fosse una questione di filosofia di fondo della contemporaneità, rilancia M.J. Sandel? Una filosofia che si baserebbe, secondo il docente di Harvard e filosofo della Morale, su alcuni tratti della cultura occidentale, soprattutto anglosassone, che traggono i loro archetipi dalle religioni protestanti che già Max Weber ebbe modo di studiare all’inizio del XX secolo. Un fondamento che risuona nelle viscere del capitalismo d’Oltreoceano e che poggiamo su una dimensione sostanziale che Sandel chiama, “la retorica della crescita”: chi lavora sodo dovrebbe crescere fino a dove il proprio talento lo può portare.
Ma poi lo studioso mostra, con il supporto di molti dati – oggi sono ampiamente conosciuti da tutti gli osservatori – come i ‘talentuosi’, cioè coloro che ce la fanno, siano formati dalle principali università americane, cui ha accesso il 20% della società più ricca. Insomma, il talento non è un processo dimostrato sul campo, marcatore di un talento originario (Dio o geni, è lo stesso), come spesso si dice evocando un adagio calvinista, ma abilitato dal sistema di studio cui solo poche élite hanno accesso.
Questo meccanismo ingenera, ai fini del tema in apertura, un processo conseguenziale: le università accolgono profili psico-sociali che vanno in continuità con il passato, i quali si formano sulle dimensioni etico-morali ‘tradizionali’, per poi andare a ricoprire ruoli di grande potere nelle aziende che hanno la capacità di rafforzare quei valori, attraverso scelte politiche ed economiche che praticano. Insomma, un circolo vizioso da cui non sembra possibile emergere assunti filosofici, idee di mondo, prospettive diverse, più critiche e contemporanee.
In questo senso tutte le istanze che parlano di un mondo sostenibile, inclusivo e aperto rischiano di non trovare il correlato pratico, perché non sono pensate per essere messe in atto, proprio perché richiederebbero di picconare la maggior parte degli assunti ancora dominanti oggi, ma solo per essere raccontate.
Verso il cambiamento del ruolo dei top manager
Altra filosofia sul merito potrebbe produrre un altro mondo? Qui la domanda di Sandel si fa pragmatica e si inserisce in un dibatto serrato e con punti di vista ancora molto lontani fra loro. Per il filosofo la risposta è sì. E dovremmo dire che, anche andando a scomodare la prospettiva più in voga oggi – mi riferisco alla neuroscienza – potremmo portare importanti prove di come la maggiore differenziazione – figlia di diversità culturale, psicologica, sociale – non possa che produrre effetti espansivi sulla capacità di immaginare mondi diversi.
Quindi se vogliamo CEO ed Executive in grado di intercettare meglio le domande sociali di oggi, di cui abbiamo detto sopra – maggiore attenzione agli impatti (Esg), sensibilità verso un’idea di modello economico più basato sulla inclusione e il valore sociale creato, rispetto agli utili… – bisogna cambiare il percorso attraverso il quale si portano quei manager in quei ruoli. Cambiare il contesto in cui si formano, non solo le capacità tecniche, ma soprattutto quelle sociali.
Andare oltre, qui di nuovo Sandel, la forma tecnocratica di società in cui siamo immersi, vuol dire essere in grado di sostenere, sul piano etico più che pratico, che ciò che conta è la polis (società) in cui viviamo e nella quale vogliamo vivere, piuttosto che la finezza e regolarità con cui si sanno agire le azioni correnti e ricorrenti. Il management assomiglia ancora troppo al funzionario della tecnica evocato da Heidegger all’inizio del XX secolo, mentre si intravvede la necessità che diventi un vero maestro come Aristotele: capace di fare riflettere sulle conseguenze delle proprie e altrui azioni per orientarle in vista di un bene comune.
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