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Perché all’Italia serve un Sud efficiente e ben governato

Il Recovery Fund ci assegna 209 miliardi. L’occasione per non trasformarli in sussidi.

All’indomani delle decisioni assunte dall’Unione europea con la costituzione del Recovery Fund, si è aperto in Italia un serrato dibattito su come devono essere impiegati i circa 209 miliardi di cui beneficia il nostro Paese fra finanziamenti a fondo perduto e quelli a tasso agevolato. Mentre il Governo lavora a selezionare i progetti da presentare a Bruxelles sui quali concentrare le risorse, alcuni Ministri hanno dichiarato che il 40% di quelle risorse debba concentrarsi nell’Italia meridionale, mirando così a colmare – o almeno a ridurre drasticamente – i divari che tuttora la separano dalle regioni del Nord.

Chi scrive – da tempo docente in atenei meridionali e amministratore e consulente di imprese, enti locali e Ministeri – sulla base di studi sull’intero sistema industriale che si è venuto addensando nel Sud nell’ultimo settantennio, ha maturato la convinzione che la situazione complessiva del Mezzogiorno sia molto più ricca di elementi positivi di quanto non facciano ritenere i rapporti, pur qualificati, della Associazione per lo Sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (Svimez). Al riguardo, sono più attendibili le sistematiche ricerche condotte da anni dalla Srm del Gruppo Intesa San Paolo che, pur non sottacendo i divari esistenti con le aree settentrionali, puntano, però, a valorizzare i sistemi manifatturieri, logistici e infrastrutturali già presenti nel Sud e pienamente operativi.

Nell’Italia meridionale, infatti, sono in esercizio decine di stabilimenti e siti – molti dei quali anche di grandi dimensioni per numero di addetti e volumi di output – di settori e gruppi industriali pubblici, privati e cooperativi, italiani ed esteri, strategici per il nostro Paese. Solo per citarne alcuni: da Ilva a Fca, da Eni a Enel, da Leonardo a Fincantieri, da Avio Aero a Ema-Rolls Royce, da Total a Shell, da Adler a Marelli, da Bosch a Bridgestone, da Lukoil al Saras, da Pilkington al STMicroelectronics, da Merck al Sanofi, da Novartis a Pfizer, da Ferrero a Barilla, da Granarolo a Coca Cola. Tutte queste realtà, con le loro Supply chain, sono ormai punti di forza non solo delle economie territoriali di riferimento, ma di tutta l’Italia. Accanto ai big player operano poi migliaia di PMI che in molte aree costituiscono solidi cluster fortemente competitivi ed export oriented.

Allora, affermare che bisognerebbe riservare il 40% degli stanziamenti del Recovery Fund alle regioni del Sud, prescindendo tuttavia da accurate ricognizioni di ciò che già esiste nel Mezzogiorno in termini di capacità produttive, infrastrutture e centri di ricerca, significa, ad avviso di chi scrive, rischiare di andare incontro a una nuova dispersione di risorse che, peraltro, il Paese non può permettersi proprio alla luce di quanto è stato previsto a Bruxelles per l’impiego del Fondo.

Serve risolvere le inefficienze amministrative

Certo, nuovi incentivi – che dovrebbero essere mirati e ben differenziati per settori e territori – servono ancora nel Sud (come del resto anche al Nord) per rafforzarne la crescita che coinvolgerebbe anche imprese settentrionali ed estere che vi sono già insediate o che potrebbero localizzarsi nelle sue aree industriali.

Per esempio, gli sgravi contributivi del 30% sul costo del lavoro concessi alle aziende nel Meridione con il decreto legge Agosto sono una misura utile, che però – come ha sottolineato anche il Presidente di Confindustria Carlo Bonomi – assumerebbe valenza strutturale se fosse prolungata nel tempo, perché al momento sarebbe limitata al periodo 1 ottobre – 31 dicembre 2020. Il Governo, comunque, previo consenso della Commissione europea, vorrebbe prolungarla sino al 2029, sia pure con un décalage nell’agevolazione, che resterebbe al 30% sino al 2025, scendendo al 20% sino al 2027, e poi al 10% nel biennio residuo.

Ma il rilancio economico dell’Italia meridionale ha bisogno di programmi di spesa con previsioni temporali di attuazione molto rigide, che prevedano anche il loro definanziamento, non solo per i vari Ministeri, ma anche per le Regioni e i Comuni, per quanto di rispettiva competenza, perché non sono rari i casi in cui cospicue risorse stanziate dal Governo e dall’Ue non si sono poi impiegate, o lo sono state con grande lentezza, a causa di inefficienze amministrative di molti enti locali. Insomma, il Paese ha bisogno di un Sud efficiente per capacità di governo e non eternamente assistito; ma, soprattutto, necessita di un vero meridionalismo che in primo luogo sia inflessibile contro i persistenti ritardi di parte delle classi dirigenti locali.

Allora una marcata accelerazione – ovunque possibile e per qualunque tipologia di opere pubbliche previste e già finanziate, delle loro progettazioni e dei rispettivi appalti – sarebbe decisamente auspicabile, anche prevedendo poteri sostitutivi di autorità centrali dello Stato rispetto a Regioni, Comuni e Città metropolitane per i fondi già loro assegnati e che risultassero in grave ritardo nell’impiegarli. Così come sarebbe auspicabile che le grandi imprese pubbliche – ma anche quelle private – accelerassero gli investimenti programmati nell’Italia meridionale, a condizione (però tassativa), che ottengano in tempi certi e ristretti tutte le autorizzazioni necessarie da chiunque rilasciate, soprattutto per le valutazioni di impatto ambientale.

Che dire poi delle vicende del Gruppo Ilva e del suo sito di Taranto? La situazione si sta trascinando oltre ogni limite di sopportabilità da parte dei suoi addetti e delle aziende dell’indotto, per le pesanti difficoltà di mercato di Arcelor Mittal e le indecisioni di un Esecutivo che non ha ancora assunto una posizione definita in merito al ruolo di azionista di maggioranza o meno dello Stato in una eventuale joint venture con i francoindiani.

L’incognita del futuro di Fca e l’impatto sul Sud

Prima di proporre altri programmi per il Sud da finanziare con le risorse del Recovery Fund – o almeno insieme con la loro stesura e successiva attuazione – perché, fra l’altro, non si compie un’accurata, ma rapida, verifica al Ministero dello Sviluppo Economico sulle conseguenze che, per esempio, potrebbero produrre per l’industria automotive nell’Italia meridionale le scelte dei nuovi piani industriali di Stellantis, la società nata dalla fusione fra il Gruppo Peugeot e quello Fca?

Di recente sono circolate notizie secondo cui alcuni nuovi modelli della casa torinese verrebbero prodotti su piattaforme già esistenti di Peugeot, ma non in Italia, e che comunque non sarebbero più assemblati nel sito polacco di Tichy. Si tratta di una scelta industriale peraltro comprensibile per un nuovo grande gruppo che va a integrare su scala sovranazionale le attuali fabbriche dei due partner, con il possibile spostamento delle subforniture da talune aziende insediate anche nel Sud che esportano in Polonia o che vi si stavano insediando. Tuttavia la decisione crea forti preoccupazioni fra gli addetti ai lavori, perché le Supply chain localizzate nel Meridione al servizio non solo dei suoi siti di assemblaggio, ma anche di altri stabilimenti nel Nord e all’estero, sono abbastanza diffuse nel territorio, occupano migliaia di addetti diretti e indiretti, e in molti casi appartengono anche a società settentrionali e straniere.

E che dire poi della minaccia portata alle attività estrattive in Val d’Agri e a Corleto Perticara in Basilicata – ove sono in produzione grazie a Eni, Shell, Total e Mitsui i maggiori giacimenti di petrolio on shore d’Europa – se fossero approvati nel decreto Semplificazioni taluni emendamenti presentati da parlamentari del Movimento 5 Stelle?

Insomma, ancora una volta si faccia attenzione in sede governativa perché, mentre si progettano programmi di interventi di varia natura sicuramente necessari nelle regioni meridionali, ma destinati a imprimere un forte impulso anche all’economia del Nord, non si perdano poi le rilevanti capacità produttive che sono già insediate nel Sud, e in buona parte delle quali negli ultimi anni si sono investite, con i contratti di sviluppo di Invitalia e i contratti di programma della Regione Puglia, quote elevate di risorse pubbliche per ammodernarle e renderle sempre più competitive.

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Federico Pirro

Articolo a cura di

Federico Pirro è Docente di Storia dell’Industria nell’Università di Bari e ha insegnato anche nell’ateneo di Lecce Economia del territorio e Giornalismo economico. È autore, fra gli altri, di Grande Industria e Mezzogiorno (1996-2007), con prefazione di Luca Cordero di Montezemolo, (Bari, Cacucci 2008) – cui sono stati conferiti nel 2009 il Premio Sele d’Oro Mezzogiorno e il Premio Basilicata per la saggistica – e di saggi su riviste e in volumi collettanei, fra i quali L’economia reale nel Mezzogiorno, a cura di Alberto Quadrio Curzio e Marco Fortis (Bologna, Il Mulino 2014). Nel 2016 gli è stato conferito dal Centro Nuove proposte di Martina Franca il Premio Menichella per i suoi studi sull’industria nel Sud. Dal 1977 al 1995 è stato amministratore anche con cariche di Presidente e Vice Presidente di imprese pubbliche e private – fra cui Insud, Finvaltur, Valtur Sviluppo, Agis-Gruppo ABB, Breda Fucine Meridionali – e dal 1995 al 2000 e dal 2007 al 2016 consulente di Presidenza della Regione Puglia sulle problematiche dello sviluppo. Dal settembre del 2015 al giugno del 2018, su nomina del Ministro Graziano Delrio, è stato componente ‘esperto’ della Nuova Struttura tecnica di missione del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Dal 2012 al 2016 è stato consigliere della Svimez, e dal 2015 siede nel Comitato scientifico della SRM-Gruppo IntesaSanPaolo. Dal 2000 al 2015 è stato editorialista del Corriere del Mezzogiorno/Corriere della Sera e con del suo settimanale Mezzogiornoeconomia. Oggi collabora con La Gazzetta del Mezzogiorno, i mensili Economy e Investire, con testate online e ha curato per la Rai e il Gruppo televisivo pugliese Telenorba trasmissioni sull’industria in Puglia.

Federico Pirro


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