Perché la nostra intelligenza è (ancora) superiore a quella delle macchine
Il tentativo di dare una definizione unica e omnicomprensiva del concetto di “intelligenza”, di questa importantissima qualità umana, non ha mai avuto successo. Ci troviamo infatti di fronte a qualcosa di enormemente complesso e in larga parte ancora non compreso. Una sorta di gigantesco mosaico, il cui significato tuttavia sfuggirebbe al “demone di Laplace”, perché mai riconducibile alla somma delle caratteristiche delle singole tessere. Eppure, tentativi se ne sono fatti, eccome. Dall’antica distinzione dei filosofi greci tra intelletto e ragione, sopravvissuta, con formulazioni diverse, fino alle opere dei grandi filosofi del XVIII secolo, per arrivare alla definizione di “intelligenze multiple” dello studioso Howard Gardner (1983), che spazia dall’intelligenza logico-matematica a quella linguistica, musicale spaziale e interpersonale.
Più semplicemente molti di noi metterebbero in relazione l’idea di intelligenza con il famoso Quoziente intellettivo (QI), nozione che, a partire dai lavori dello psicologo francese Alfred Binet nei primi anni del Novecento, ebbe infatti grande successo, dando vita a numerosi strumenti per la sua valutazione. Ancora oggi i test per la valutazione del QI, orientati a sondare prevalentemente capacità cognitive di memoria e di ragionamento, sono ampiamente presenti nei test di ammissione a molte facoltà universitarie.
Per molto tempo, dunque, l’idea di intelligenza come sinonimo di pensiero razionale ha avuto un ruolo dominante nella nostra cultura, creando un filtro valutativo che ha condizionato profondamente le scelte in molti campi a partire dall’educazione e quindi dalla scuola. L’idea di una “intelligenza sociale” comincia a farsi strada intorno agli Anni 40, e poi, in modo più ampio, con i primi lavori di Gardner negli Anni 70, ma è solo in un articolo pubblicato nel 1990 che gli psicologi Peter Salovey e John D. Mayer danno una prima definizione di intelligenza emotiva: “La capacità di controllare i sentimenti e le emozioni proprie e altrui, distinguerle tra di esse e di utilizzare queste informazioni per guidare i propri pensieri e le proprie azioni”.
Con gli Anni 90 si conclude quindi il lungo e faticoso percorso che ha portato a riconoscere le emozioni come una componente essenziale della nostra intelligenza. L’interesse per le emozioni, precedentemente, a partire dall’opera di Charles Darwin, era prevalentemente legato agli studi nel campo della biologia e in seguito affrontato da psicologi particolarmente attenti a comprenderne l’aspetto biologico. Importanti in questo senso i lavori degli psicologi Silvan Tomkins (1962) e poi quelli di Paul Ekman e Wallace V. Friesen (1969).
Il merito degli studi sull’intelligenza emotiva, approdati poi al grande pubblico attraverso la vasta opera divulgativa dello psicologo Daniel Goleman, è aver fatto comprendere il ruolo fondamentale che le emozioni svolgono in situazioni per molto tempo immaginate come esclusivo dominio del pensiero logico-razionale. Il premio Nobel 2002 per l’Economia, assegnato a Daniel Kahneman, è la più importante conferma in questa direzione. Gli studi di Kahneman dimostrano infatti come le decisioni umane, in campo economico (ma non solo), divergano sistematicamente dalla presunta razionalità a lungo sostenuta dalle teorie economiche classiche.
La sintesi di quanto detto finora, anche in assenza di una definizione capace di soddisfare chiunque, ci pone dunque di fronte a una visione ampia e articolata dell’intelligenza umana, che include, oltre al dominio della mente ragionante, anche ciò che della nostra intelligenza è legato alle emozioni e ai sentimenti. Una base importante per avviare un confronto con il concetto di Intelligenza Artificiale. (AI).
Ciò che è intelligente non è mai artificiale
Molti individuano nel matematico Alan Turing, famoso per la decrittazione della macchina “Enigma” con cui la Germania nazista cifrava i suoi messaggi, il padre dell’AI. Alcuni suoi lavori, come quello in cui sviluppa l’idea del test che porta il suo nome, sono considerati come i primi importanti contributi di questa disciplina. Ma solo nel 1955 l’informatico John McCarthy ne conierà la definizione, formulando insieme ai matematici Marvin Minsky e Claude Shannon, la cosiddetta “proposta di Dartmouth”, in cui vengono definiti i temi principali della ricerca in questo campo: le reti neurali, la teoria della computabilità, la creatività e l’elaborazione e il riconoscimento del linguaggio naturale.
La domanda se l’AI è, o sarà, in grado di replicare o addirittura superare l’intelligenza umana è una questione molto aperta e dibattuta, animata da voci autorevoli spesso fortemente discordanti. Lungi dall’idea di poter trarre delle conclusioni definitive, è importante tuttavia fornire un necessario chiarimento: molto del materiale informativo reperibile su questo argomento, è fortemente condizionato dagli enormi interessi economici legati agli sviluppi tecnologici in questo settore. Nell’ambito di una disciplina a cavallo tra futuro e fantascienza, dal sapore inevitabilmente affascinante, diventa dunque fondamentale saper distinguere le conoscenze realmente acquisite dal linguaggio del marketing.
Nel 2015 ha avuto molto risalto un appello firmato dal filosofo Nick Bostrom, autore del libro Superintelligenza, a cui ha aderito anche il celebre astrofisico Stephen Hawking, sulle minacce legate a uno sviluppo incontrollato dell’AI. C’è chi ha giudicato come eccessive queste preoccupazioni, ma è innegabile che queste valutazioni producano forti suggestioni in una opinione pubblica impressionata dagli straordinari risultati ottenuti da presunte ‘macchine pensanti’. Negli ultimi anni i sistemi di Machine learning hanno permesso ad AlphaGo, l’AI di Google DeepMind, di battere in più partite i migliori giocatori al mondo di Go, l’antico gioco cinese considerato più complesso degli scacchi, spingendosi quindi ben oltre il risultato conseguito da Deep Blue di IBM nella leggendaria partita del 1997 contro il russo Garry Kasparov. Ancor più meraviglia hanno destato il computer Aiva, presentato a Vancouver da Pierre Barreau, che compone musica ispirandosi a Beethoven e, nel campo della pittura, il progetto The Next Rembrandt, entrambi capaci di realizzazioni in grado di confondere gli esperti. Infine, nell’ambito della scrittura, il nuovo generatore di linguaggio GPT-3 che, sfruttando processi di Deep learning, è capace di completare un articolo di giornale senza permettere al lettore di riuscire a distinguere il prodotto dell’AI con l’intero testo originale.
Sono risultati di questo tipo che fanno dire ad alcuni esperti del settore che il momento in cui sarà possibile replicare l’intelligenza umana è ormai molto vicino. Demis Hassabis, del DeepMind di Google, è convinto che questo traguardo potrà essere raggiunto in qualche decina d’anni; altri, come Rodney Brooks, Direttore fino al 2007 del Laboratorio di informatica e AI del Mit di Boston, sono infinitamente più cauti e pensano che ci vorranno centinaia d’anni.
Ma la stima sull’asse del tempo rischia di essere una lettura molto parziale per chi riflette su questo tema in modo molto più radicale. Luciano Floridi, Professore Ordinario di Filosofia ed Etica dell’Informazione all’Università di Oxford, afferma che non ha senso parlare di “intelligenza”, poiché “tutto ciò che è veramente intelligente non è mai artificiale e tutto ciò che è artificiale non è mai intelligente”. Tutti, peraltro, sono concordi nell’affermare che i risultati straordinari a cui abbiamo accennato, non siano classificabili come “Artificial General Intelligence” (AGI), un’AI capace di replicare completamente l’intelligenza umana, ma solamente come “Narrow Artificial Intelligence”, “Intelligenza Artificiale debole”, che si pone come obiettivo la realizzazione di un sistema capace di agire con successo in una specifica attività complessa come, per esempio, il riconoscimento di immagini. È proprio di questo che parla Floridi, quando invita a riflettere sullo “scollamento” che si è creato tra la “capacità di agire con successo nel mondo” e la necessità di essere intelligenti. Se infatti, per un attimo, ci distacchiamo dallo straordinario risultato raggiunto, e ci chiediamo come l’AI ha agito per ottenerlo, scopriamo che questo risultato è stato raggiunto operando, unicamente, attraverso una enorme capacità di elaborazione di dati.
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Intelligenza artificiale, intelligenza emotiva, Alan Turing, Howard Gardner