Smart working

Perché lo Smart working non è una questione tecnologica

Lo Smart working è ormai da tempo al centro di vari dibattiti, non solo all’interno delle aziende. Lo stato di emergenza conseguente alla diffusione del covid-19, com’è noto, ha previsto una riorganizzazione del lavoro; ed è recente l’approvazione dell’accordo dal titolo Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile che, in verità, riprende alcuni principi già contenuti nella Legge 81/2017, ponendo però l’accento su flessibilità organizzativa, volontarietà delle parti che sottoscrivono l’accordo e utilizzo di strumentazioni adeguate. È chiaro a tutti che nel nuovo contesto sono cambiate le esigenze dei lavoratori, che sempre più avanzano richieste, per esempio: orari flessibili e lavoro da remoto. E spesso le persone, per varie motivazioni – in particolare legate al malessere in ufficio – si dimettono: il fenomeno negli Usa è noto come “Great resignation” e ne abbiamo un riscontro, in forma più lieve, anche in Italia.

Da questi ragionamenti è nata una ricerca di H2O, società di consulenza specializzata su tematiche HR e di organizzazione aziendale, con l’obiettivo di indagare i benchmark di mercato e le dinamiche aziendali in Italia sulle nuove modalità di lavoro, e anche per approfondire le nuove sfide – del tutto imprevedibili – che la pandemia ci costringe a fronteggiare. E che, del resto, abbiamo già gestito in modo intelligente. “Siamo riusciti a rispondere prontamente alla situazione drammatica perché nessuna azienda è stata totalmente incapace di adeguarsi alle mutazioni; anzi, abbiamo dimostrato che, seppur in una condizione tragica, si poteva proseguire con il business. E in certi casi sono stati evidenziati livelli di produttività inaspettati”, è il pensiero di Silvio Malanga, Fondatore di H2O.

D’altra parte serve ammettere che qualche positività – nel dramma complessivo – durante il periodo pandemico è emersa: si pensi solo alla nuova concezione di benessere sul lavoro che sta rivoluzionando i rapporti tra persone e aziende. Anche le evidenze della ricerca di H2O indicano che le condizioni di lavoro sono destinate a essere profondamente diverse rispetto al periodo pre-covid. “Qualcuno si è immedesimato nella ‘nuova normalità’ e continua a cavalcare l’onda del cambiamento, altri un po’ meno. A ogni modo, è importante non perdere l’occasione di evolvere di fronte a una situazione contingente”, continua Malanga. Infatti, se alcune soluzioni inizialmente sono state vissute come un palliativo o come emergenziali, adesso sono diventate abitudini.

Il lavoro agile diventa visione strategica

Ci sono però delle difficoltà da affrontare, soprattutto legate alla questione dello Smart working: per esempio serve trovare un compromesso tra chi sostiene il lavoro in sede come miglior opzione e chi evidenzia le nuove opportunità del lavoro agile e chi esalta, invece, il lavoro ibrido. Ma la vera criticità è che dietro a queste questioni – che già di per sé portano turbolenze organizzative – si celano il ripensamento di modelli consolidati e un cambiamento nella gestione del personale. “Quando un’azienda decide che modalità di lavoro vuole adottare e che meglio si adatta alle sue esigenze, deve in primis dichiararlo e, di conseguenza, adeguarne i meccanismi aziendali”, dice Malanga.

Le organizzazioni stanno riscontrando nuove modalità di contatto con le persone e lavorano, quindi, per rinnovarsi. “Le imprese che hanno applicato lo Smart working, stanno lavorando contemporaneamente ad aspetti culturali, alla leadership e all’engagement”, conferma Francesca Sellani, Employee Experience Designer, Change Manager, Business e Team coach. L’elemento carente – più diffuso nelle grandi aziende – è quello di legare le strategie al purpose, ovvero a una visione prospettica. “Solo alcune organizzazioni associano lo Smart working a uno scopo più ampio nei loro piani strategici, considerando la sua gestione come un elemento che impatta sul business”, afferma Sellani.

Ecco allora che la vera questione non è legata a quanti giorni si lavora da remoto (secondo l’indagine Trends & Salary Survey 2021 condotta da Randstad Professionals, il 66% delle aziende che hanno adottato lo Smart working durante l’emergenza continuerà a utilizzarlo anche in futuro), bensì riguarda la definizione di una visione d’insieme che permetta all’organizzazione di adattarsi alla contemporaneità fatta sempre più di eventi incerti. “Serve concentrarsi su come si supporta e si valorizza il collaboratore, sulla capacità di responsabili e manager di gestire il cambiamento, ma soprattutto di individuarlo e anticiparlo; questo diventa un modo per fare la differenza sul mercato”, continua Sellani. Da una prospettiva HR, dunque, significa focalizzarsi su aspetti quali, per esempio, attraction, riduzione del turnover, persone che assicurino la business continuity.

In chiave di attrattività e di prospettiva futura, è utile ragionare su quello che è accaduto – e su come è stato gestito – per proseguire, perché, come detto, si sono testati nuovi modi di lavorare. “Le persone si sono abituate a nuovi ritmi e hanno trovato equilibri inediti, a cui non vogliono rinunciare; quindi, è necessario garantire il bilanciamento vita-lavoro che desiderano”, conferma Malanga. In questo scenario, la people experience è da ricostruire; bisogna lavorare nell’ottica di riconoscere le persone in quanto tali, prima ancora che professionisti, focalizzandosi su valori e benessere.

risorse umane, Smart working, legge 81/2017, Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile, H2O


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Federica Biffi

Laureata magistrale in Comunicazione, Informazione, editoria, classe di laurea in Informazione e sistemi editoriali, Federica Biffi ha seguito corsi di storytelling, scrittura, narrazione. È appassionata di cinema e si interessa a tematiche riguardanti la sostenibilità, l'uguaglianza, l'inclusion e la diversity, anche in ambito digital e social, contribuendo a contenuti in siti web. Ha lavorato nell'ambito della comunicazione e collabora con la casa editrice ESTE come editor e redattrice.

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