Perché non sappiamo valorizzare il potenziale dei lavoratori stranieri?
Per una serie di motivi, tra cui ostacoli burocratici, problemi linguistici e discriminazione, molti migranti non sono in grado di mettere a frutto le proprie competenze nei Paesi d’adozione e finiscono per occupare ruoli meno retribuiti e meno qualificati rispetto a quelli che ricoprivano in precedenza in patria. Questo fenomeno, considerabile come un vero e proprio ‘spreco di cervelli’, comporta una perdita tanto per i soggetti coinvolti quanto per i Paesi ospitanti poiché il loro potenziale non è espresso appieno.
Alcuni dati al riguardo arrivano dagli Stati Uniti e li ha forniti alla Bbc la Senior Policy Analyst e Manager del think tank statunitense Migration policy institute (Mpi) Jeanne Batalova analizzando i dati raccolti dal suo istituto: Oltreoceano dal 20% al 25% dei migranti con istruzione universitaria è gravemente sottoccupato. Si tratta di persone disoccupate o che svolgono lavori come baby-sitter, cassiere o autista, che richiedono come unica prerogativa il completamento degli studi superiori.
Secondo questo studio a comporre i gruppi maggiormente sottoccupati sono le persone di colore e ispaniche, quelle che conoscono meno l’inglese e i richiedenti asilo. L’analisi di Mpi ha evidenziato anche che negli Stati Uniti il 15% dei laureati in Medicina è sottoccupato con percentuali del 9% per chi ha studiato e si è formato negli Usa, e del 15% per chi invece ha condotto i suoi studi fuori dal Paese.
Lo status giuridico e le competenze linguistiche sfavoriscono i migranti
Ci sono molte ragioni per cui una persona istruita potrebbe non riuscire a mettere a frutto le proprie capacità dopo essere arrivata in un nuovo Paese. Gli ostacoli burocratici e legali possono essere sostanziali. Anche se i titoli di studio e le qualifiche sono considerati validi oltre confine, gli sfollati potrebbero non essere in grado di fornirne la prova. Alcuni status legati alla condizione di migrante impediscono poi alle persone di lavorare. Altre limitazioni includono competenze linguistiche limitate e un accesso ridotto ai social network, che spesso forniscono informazioni e connessioni per muoversi più agilmente anche nel mondo del lavoro.
Anche le pressioni politiche nei Paesi ospitanti fanno la loro parte, soprattutto in quelli con economie più deboli e nelle fasce di popolazione più vicine a orientamenti di destra e centrodestra. Non è raro, infatti, che forme di supporto nella ricerca di lavoro ai lavoratori che provengono dall’estero siano percepite come uno svantaggio per chi invece straniero non è, e che quindi in un mercato ristretto si troverebbe a competere con ancora più persone. Nel complesso, inoltre, le politiche orientate all’integrazione e all’inserimento sono spesso pensate per aiutare i migranti a diventare autosufficienti il prima possibile. Ciò significa, ha sottolineato Batalova, che le persone, qualsiasi background professionale si portino dietro, sono spinte ad accettare qualsiasi lavoro e di solito si tratta proprio di occupazioni poco qualificate.
Lo ‘spreco di cervelli’ ha un costo
Un sistema come questo che incanala le persone in lavori che non permettono di mettere a frutto tutte le loro competenze e che fa sì che, per esempio, un dentista finisca per decidere di guidare un taxi o di lavorare in un supermercato ha però un costo. L’Mpi ha stimato che i salari persi dei migranti sottoccupati negli Stati Uniti ammontano a quasi 40 miliardi di dollari (35 miliardi di euro) ogni anno.
Anche alla luce di questo, non mancano Governi che prendono sul serio la lotta allo ‘spreco di cervelli’. Per esempio, grazie anche all’Association of southeast asian nations (Asean), organizzazione creata allo scopo di contribuire allo sviluppo economico, sociale e culturale del Sud-Est asiatico, questi Paesi stanno cercando di ridurre le barriere burocratiche all’inserimento lavorativo dei migranti altamente qualificati. Oppure, tra quelli dell’Unione europea vige il riconoscimento reciproco dei titoli di studio e diverse forme di armonizzazione dei requisiti professionali.
Da questo punto di vista, la pandemia ha abbattuto molte barriere a causa dell’urgente necessità di operatori sanitari in tutto il mondo. Nel Regno Unito, il programma Medical support worker ha consentito ai medici non registrati al General medical council britannico di lavorare in determinate aree mediche, accompagnati da supervisori. Anche i decreti emessi in Perù e Colombia durante l’emergenza sanitaria hanno consentito l’approvazione accelerata delle qualifiche per gli operatori sanitari laureati in un altro Paese.
Per Batalova, questi programmi sono utili, ma tendono ad avere effetti su piccola scala e a volte sono una goccia nel mare rispetto alla necessità e alla disponibilità di manodopera qualificata. La cooperazione regionale e governativa, insomma, non basta per risolvere tutti i problemi che impediscono alle persone qualificate di lavorare: anche i datori di lavoro devono fare la loro parte.
Fonte: Bbc
Laureata in Filosofia, Erica Manniello è giornalista professionista dal 2016, dopo aver svolto il praticantato giornalistico presso la Scuola superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” all’Università Luiss Guido Carli. Ha lavorato come Responsabile Comunicazione e come giornalista freelance collaborando con testate come Internazionale, Redattore Sociale, Rockol, Grazia e Rolling Stone Italia, alternando l’interesse per la musica a quello per il sociale. Le fanno battere il cuore i lunghi viaggi in macchina, i concerti sotto palco, i quartieri dimenticati e la pizza con il gorgonzola.
occupazione, integrazione, migrazioni, spreco di cervelli, Migration Policy Institute