Predicare bene (nell’HR) e razzolare male
Si ha notizia di diverse grandi aziende che si vantano, orgogliose, di aver ottenuto anche nel 2021 la certificazione “Top Employer”. Ma per tutte è vera gloria?
C’è da chiedersi se i criteri presi in considerazione dall’ente certificatore siano adeguati a misurare la qualità, l’efficacia, l’etica delle politiche del personale e delle strategie rivolte a garantire livelli retributivi e livelli occupazionali. Resta poi da vedere quanto valore possa avere una certificazione che si poggia su standard universali, applicati a prescindere dalle culture nazionali e dai contesti economici. Per tante aziende la certificazione è proprio la conseguenza della bontà delle azioni (concrete) sul personale. Tuttavia, come sempre, serve fare qualche distinguo.
Certo, il ‘giudizio universale’ della certificazione interessa i comitati retributivi delle società quotate. Ma si sa bene che qui è in gioco solo l’interesse degli azionisti. E questo interesse risiede nell’efficace controllo del costo del lavoro e, al massimo, in una ragionevole pace sociale, tale per cui la ricerca del profitto non sia messa in discussione. Eppure è legittimo chiedersi se il gaudio per il raggiungimento dell’ambito traguardo mostrato dai manager HR è condiviso dai lavoratori di quella stessa azienda.
Per esempio, tra le aziende orgogliose di aver ottenuto, in Italia, la certificazione c’è Whirlpool. HR manager dell’azienda dichiarano fieri che l’ente olandese ha riconosciuto i continui sforzi per implementare pratiche altamente innovative nella gestione delle Risorse Umane e per creare una cultura vincente che responsabilizzi e sviluppi le persone. Stando a notizie di cronaca, almeno alcuni dipendenti – o forzatamente ex dipendenti – di Whirlpool non sono del tutto d’accordo…
Articolo a cura di
GuastafEste