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Premio EY, Zucchetti è imprenditore dell’anno per il Family Business

Alessandro Zucchetti è l’imprenditore dell’anno per la categoria ‘Family Business’ della 27esima edizione del Premio promosso da EY: il Presidente di Zucchetti ha ricevuto il riconoscimento nella serata di giovedì 7 novembre presso la sede di Borsa Italiana a Milano. Il premio arriva a seguito dell’importante crescita dell’azienda di Lodi che negli ultimi anni è stata protagonista di una notevole evoluzione in termini di volumi di fatturato e di personale.

Proprio di questi argomenti, Alessandro Zucchetti ha parlato in una recente intervista pubblicata sul numero 317 della rivista Sviluppo&Organizzazione (Luglio-Agosto-Settembre 2024) il più importante magazine di organizzazione aziendale italiano edito dalla casa editrice ESTE (editore anche del nostro quotidiano) e pubblicato ininterrottamente dal 1970. Di seguito pubblichiamo l’articolo-intervista dal titolo “La cultura organizzativa come bussola della crescita”.

Qualche tempo fa si diceva che la difficoltà nello spiegare il proprio lavoro equivalesse ad assicurarsi un futuro professionale, perché solo le mansioni più ‘semplici’ da raccontare sarebbero state quelle nel mirino dell’automazione. La teoria può ben valere anche per le aziende, che dal presidio di un solo mercato, spesso si ritrovano a essere protagoniste su più fronti. Il caso di Zucchetti è emblematico proprio di questo aspetto.

Se nel 1978 l’azienda era nata dall’idea di Mino Zucchetti di digitalizzare i processi del suo studio commercialista, nel tempo ha poi rafforzato il presidio del suo core business iniziale, legato ai software per contabilità, paghe e contributi. Ma questa etichetta nel 2024 non la rappresenta a pieno, visto che oggi propone prodotti e soluzioni per ambiti specifici e molto vasti: Manifattura, Turismo, Logistica, Ospitalità, Salute, Distribuzione…

È questo il risultato di un percorso iniziato una decina di anni fa – anche a seguito del passaggio generazionale tra il fondatore e i due figli, Alessandro e Cristina – con l’azienda cresciuta nel numero di addetti (da circa 4.500 alle 9mila persone attuali con l’obiettivo di superare quota 10mila nel 2025) e in fatturato (oggi supera i 2 miliardi di euro), per merito sia della crescita organica sia per le nuove acquisizioni (sono state finora oltre 200). Ma come può crescere un’azienda mantenendo la sua identità organizzativa? Ne abbiamo parlato con Alessandro Zucchetti, Presidente di Zucchetti.

In che modo la cultura può essere considerata uno dei fattori che vi hanno permesso di crescere rapidamente?

La cultura, la motivazione delle persone che ci sono all’interno di un’azienda, la qualità delle soluzioni e la soddisfazione per i prodotti proposti, sono tutte componenti indispensabili per la crescita.

Torniamo al passaggio generazionale, vero turning point per la vostra azienda: com’è avvenuto?

Ciò che ha funzionato è stato che Mino Zucchetti, il fondatore dell’azienda, pensava da anni a come realizzare il passaggio generazionale. Normalmente un imprenditore – soprattutto se appartiene alla prima generazione – cerca sempre di accentrare tutte le attività dall’inizio della sua esperienza imprenditoriale fino a quando decide di smettere. Invece nella nostra azienda è successo proprio il contrario: mio padre ha scelto di occuparsi degli aspetti più strategici, delegando ai manager la gestione operativa e il presidio delle specifiche aree di business. Quindi, come famiglia abbiamo sempre lavorato sul coordinamento delle persone e sulla motivazione. La nostra fortuna è poi stata la decisione di aver pensato, con molto anticipo, al passaggio generazionale, che formalmente è avvenuto nel 2008.

Qual è stato il ruolo di Mino Zucchetti dopo il 2008?

Nei primi anni è stato Consigliere ed era molto presente in azienda, con il ‘classico diritto di veto su tutto’; dal punto di vista pratico, infatti, il passaggio generazionale è avvenuto più avanti: non c’è una data esatta, perché è stata una transizione graduale nel tempo.

In che modo la nuova generazione può fare impresa tenendo conto di chi l’ha preceduta?

Nel nostro caso ci rifacciamo ai nostri princìpi: la filosofia aziendale, sulla quale si basa l’organizzazione, è stata scritta ed è periodicamente revisionata, lasciando però inalterati alcuni concetti e modificandone altri a seguito delle esperienze che viviamo. Per noi, questo è un aspetto fondamentale. Poi abbiamo sempre avuto grande rispetto dei ruoli: i manager hanno ampia delega e la famiglia imprenditoriale non interviene nella quotidianità dei responsabili, come invece può accadere in qualche impresa dalla governance più tradizionale. Quest’ultimo fenomeno spiega perché alcuni manager, con valide competenze, preferiscano non collaborare con le aziende familiari: non vogliono che ci sia una figura che prenda decisioni al loro posto e magari senza neppure essere informati. Nella nostra organizzazione sono episodi mai accaduti e che non devono verificarsi; c’è grande responsabilizzazione e autonomia decisionale. E se le figure apicali sono responsabilizzate e motivate, sicuramente lo sono anche le altre persone.

Torniamo alla filosofia aziendale, e quindi alla cultura, che si modifica nel tempo: che cosa è rimasto costante dalla vostra fondazione?

Sicuramente l’aspetto più importante è che le persone abbiano una forte motivazione sul lavoro. Poi c’è la questione della delega. E anche la costante attenzione verso l’innovazione: spesso proprio i manager, che hanno i feedback diretti dal mercato, sono stimolati a fare cose nuove: molti progetti vanno a buon fine, ma qualcuno purtroppo non ha lo stesso esito. Anche in questo caso, l’obiettivo è apprendere dagli errori che sono stati commessi: bisogna analizzarli in modo puntuale e comprendere perché il progetto, una volta introdotto sul mercato, non ha avuto successo. È, però, altrettanto fondamentale non demonizzare l’errore: se un progetto, proposto da un manager, è arrivato sul mercato, è stato approvato anche dagli imprenditori e quindi tutti ne siamo responsabili. Scaricare la responsabilità su chi ha proposto una novità grazie a un’intuizione rischia che in futuro chi dovesse avere un’idea preferirà pensarci su più di una volta prima di condividerla. Per un’azienda che vive di innovazione non ha senso demotivare le persone più intraprendenti e creative.

La vostra crescita non è stata influenzata dall’intervento di fondi di investimento né dalla capitalizzazione in Borsa: come avete resistito a introdurre figure esterne nella governance?

Al momento ci sono tante opportunità che stanno emergendo e non vediamo la necessità di sconvolgimenti societari: non siamo interessati a percorsi volti a far entrare all’interno dell’azionariato altre compagini. Abbiamo affrontato per tempo il passaggio generazionale e non c’è stato bisogno di cedere l’azienda come accaduto in altre realtà imprenditoriali che hanno gestito questa fase con difficoltà (è il caso in cui i figli non sono orientati a proseguire le orme genitoriali). In Zucchetti le quote aziendali sono state cedute quando il fondatore era ancora in azienda: questo è l’aspetto più importante, perché solo ‘muovendosi’ con i giusti tempi il percorso di cessione della società può avere successo.

Dopo il passaggio generazionale, avete iniziato una forte crescita. In che modo riuscite a garantire che ogni realtà del gruppo sia allineata alla stessa cultura?

La cultura è sicuramente fondamentale, perché stiamo crescendo sia internamente sia attraverso le acquisizioni. Abbiamo introdotto corsi di filosofia aziendale dedicati alle nuove persone, alle quali facciamo anche un check qualche mese dopo la frequenza dell’iniziativa per verificare se ciò che diciamo corrisponde a quanto si siano trovati ad affrontare sul campo. Questo aspetto è molto importante, perché ci deve essere assoluta corrispondenza tra la cultura trasmessa e la cultura applicata dalle divisioni e dai singoli responsabili.

Chi partecipa a queste iniziative di filosofia aziendale?

Riguardano tutto il nuovo personale, sia chi è stato appena assunto sia chi arriva da altre società che entrano nel gruppo. Capita, infatti, che siano acquisite aziende che hanno culture leggermente diverse, anche se, per scelta, coinvolgiamo nella maggior parte dei casi realtà familiari e quindi già molto simili a noi. L’idea è che, con gradualità, siano uniformati tutti i comportamenti. Questo aspetto di solito colpisce molto le nuove aziende acquisite, che apprezzano il clima collaborativo tra le persone delle varie divisioni: d’altra parte l’obiettivo è fare sinergia sui prodotti più che sui clienti e dunque è necessaria la collaborazione tra team e tra società diverse.

In che modo stimolate la collaborazione interna?

In azienda ci si dà tutti del “tu” e questo permette di eliminare qualsiasi barriera di livello e di seniority, nonché tutte le possibili distanze tra le persone. Poi c’è una cultura non gerarchica, uno dei dogmi di Mino Zucchetti, rimasto inalterato nel tempo. È quindi offerta ampia delega alle persone e si favorisce l’innovazione dal basso: non sempre le idee migliori provengono dai manager, perché spesso nascono da un confronto-ascolto all’interno del team e a fare la proposta può anche essere l’ultimo arrivato in azienda.

Qual è la logica che vi porta a scegliere le aziende da acquisire?

Oltre alla vicinanza culturale e all’assetto familiare della governance, ci interessano imprese che abbiano soluzioni di qualità, clienti soddisfatti e numeri di bilancio sostenibili. Tutti questi aspetti agevolano l’integrazione. Inoltre, la commistione di culture e l’apporto delle competenze delle persone potenziano la capacità innovativa di tutto il gruppo.

Come conciliate l’adozione di una cultura forte con la decentralizzazione dovuta alle tante aziende acquisite nel tempo?

Abbiamo un Consiglio di amministrazione della società capogruppo e i vari amministratori hanno le deleghe sulle aziende partecipate. A questo organo societario abbiamo affiancato un Comitato direttivo più allargato, che comprende anche l’amministratore delle società partecipate proprio per condividere alcune tematiche, all’ordine del giorno.

Come state progettando il futuro dell’azienda?

L’obiettivo è proporre un’offerta sempre più completa. In questa fase storica abbiamo evidenziato che i clienti – soprattutto le grandi imprese – hanno varie soluzioni tecnologiche e diversi fornitori informatici, così che ogni processo aziendale possa essere gestito da componenti software di produttori differenti. La nostra proposta prevede l’ampiamento delle soluzioni offerte in ottica integrata. Siamo, infatti, convinti, che avere un unico interlocutore sia un grande vantaggio competitivo. Si pensi alle disfunzioni alle quali va incontro un cliente con tanti fornitori: innanzitutto dovrà investire risorse per l’integrazione tra dati e sistemi; poi dovrà affrontare i costi di mantenimento e il tempo per assicurarsi il dialogo tra soluzioni diverse…

Qual è il vostro modello di lavoro?

Abbiamo offerto ai responsabili la facoltà di offrire, in base alle persone del team, la possibilità di lavorare da remoto. Abbiamo evidenze che, in generale, si trascorra circa il 50% del tempo in ufficio; certo ci sono alcuni team che lavorano più in presenza e altri, anche a causa della dislocazione geografica, meno presenti negli spazi condivisi. Crediamo nella flessibilità e nella responsabilità dei manager rispetto alla gestione dei team.

L’introduzione del lavoro da remoto è un limite alla condivisione della cultura aziendale?

Ci sono questioni che si sviluppano meglio in ufficio, ma ci sono anche vantaggi generati dal Remote working. Il modello ibrido è quindi quello ideale: nel nostro caso abbiamo potuto aggregare alcuni uffici che in questo modo offrono la possibilità alle persone di ritrovarsi in numero maggiore: magari si frequenta meno il luogo di lavoro, ma quando si è in presenza lo si può fare in ambienti più piacevoli e più frequentati dai colleghi.

A proposito di modalità di lavoro: in che modo l’Intelligenza Artificiale (AI) sta modificando il lavoro?

Le Big tech stanno facendo passi da gigante sull’AI e ogni trimestre gli strumenti tecnologici migliorano sempre di più e anche noi abbiamo dotato le nostre soluzioni di questa tecnologia, per esempio introducendo chatbox e virtual assistant. Sicuramente sarà qualcosa di sempre più pervasivo, ma per la nostra organizzazione, al momento, non vediamo sconvolgimenti interni.

Quali sono gli insegnamenti del mercato che avete fatto vostri a livello organizzativo?

Oltre a guardare ai nostri clienti, siamo attenti a capire come si muovono le multinazionali, perché sicuramente su alcuni aspetti sono più avanti di noi. Il feedback esterno è indubbiamente importante per rimanere al passo con i tempi, sia per gli investimenti sia per l’organizzazione. Per esempio, alcune Big tech Usa con sede in Italia si sono mosse ben prima del Covid rispetto all’organizzazione degli spazi d’ufficio: le nostre aziende, invece, hanno avuto bisogno dell’emergenza sanitaria per approcciare una nuova filosofia degli ambienti di lavoro. Dunque, il monitoraggio della realtà resta fondamentale, per capire ciò che fanno i nostri competitor e ciò su cui ragionano le aziende più grandi, comprese quelle della consulenza.

Come si concilia la relazione in presenza con le potenzialità delle tecnologie che permettono anche il lavoro da remoto?

La relazione resta fondamentale, ma si possono mixare le due componenti. Quando è iniziata l’era delle video call, ammetto di essere stato entusiasta delle performance che si ottenevano in una sola giornata. Però per alcune tipologie di incontri resta importante vedersi di persona: c’è un piacere differente, perché da remoto ci si ‘perde’ e siamo tutti ‘piatti’ dal punto di vista fisico, ma pure rispetto all’empatia, ai sentimenti, ecc. Quando ci si incontra si può ridere e scherzare, cosa molto difficile da fare da remoto, e questo, oltre a essere piacevole, può indubbiamente migliorare le relazioni e la collaborazione lavorativa.

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Dario Colombo

Articolo a cura di

Giornalista professionista e specialista della comunicazione, da novembre 2015 Dario Colombo è Caporedattore della casa editrice ESTE ed è responsabile dei contenuti delle testate giornalistiche del gruppo. Da luglio 2020 è Direttore Responsabile di Parole di Management, quotidiano di cultura d'impresa. Ha maturato importanti esperienze in diversi ambiti, legati in particolare ai temi della digitalizzazione, welfare aziendale e benessere organizzativo. Su questi temi ha all’attivo la moderazione di numerosi eventi – tavole rotonde e convegni – nei quali ha gestito la partecipazione di accademici, manager d’azienda e player di mercato. Ha iniziato a lavorare come giornalista durante gli ultimi anni di università presso un service editoriale che a tutt’oggi considera la sua ‘palestra giornalistica’. Dopo il praticantato giornalistico svolto nei quotidiani di Rcs, è stato redattore centrale presso il quotidiano online Lettera43.it. Tra le esperienze più recenti, ha lavorato nell’Ufficio stampa delle Ferrovie dello Stato italiane, collaborando per la rivista Le Frecce. È laureato in Scienze Sociali e Scienze della Comunicazione con Master in Marketing e Comunicazione digitale e dal 2011 è Giornalista professionista.

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