Quando l’arte ispira la vita organizzativa
Il tema di questo intervento si allinea ai temi di ricerca che coltivo sin dalla prima stagione della mia vita di ricercatore. Agli inizi degli Anni 90, quando tiravo fuori le prime ricerche, dovendo scegliere una ‘etichetta organizzativa’, cioè una variabile di controllo sociale – come insegna Barbara Czarniawska, studiosa dell’organizzazione, in un volume che ho recentemente curato in edizione italiana, dal titolo Per una teoria dell’organizzare – mi toccò in sorte quella di art management: era una fase in cui la comunità di aziendalisti era proiettata su sistemi di business e categorie più vicine alla tradizione dell’industrial organization (penso al grande interesse per i distretti industriali, per il settore alimentare, per i trasporti e in generale per quelli trainanti del manifatturiero e del Service management) e meno a contesti considerati – a torto – come strani o peculiari o anormali: il mondo dei teatri, della musica di ricerca, della filosofia, della pittura e delle arti figurative; come se poi esistessero organizzazioni ‘normali’, prive di peculiarità. E non so quale aggettivo potremmo usare come contrario di ‘strano’.
Per questo, a distanza di 30 anni, non credo sia centrato riprendere quell’etichetta. Perché l’abbinamento art-management lo traduciamo in italiano come “management dell’arte”. E “dell’arte” usato come genitivo rischia di ingannare la questione del binomio, che andrebbe invece costruito al limite come “management and art”, oppure con un più disarmante “arts and organizations” al plurale, per riconoscere le tante specificità di organizzazioni, di cui – peraltro – le imprese sono un sotto-insieme. Questo perché il compito di chi studia o di chi gestisce – manager o imprenditori – consiste nel fare parlare le arti e assorbire dalle loro antiche tradizioni alcune lezioni per gli studi e le pratiche di management, assai più recenti.
Tornerò a breve su questo, mi limito ora a evidenziare come l’idea a lungo vagheggiata per cui questo binomio sia occasione per ‘applicare’ alle organizzazioni artistiche le categorie del management è un errore – o orrore – epistemologico che esprime arroganza dei posteri. Basti pensare che le nostre pratiche aziendali hanno appena poche centinaia di anni, mentre i linguaggi e le esperienze della gente di teatro, di musica, di pittura vantano tradizioni millenarie.
Mi convince affermare in questa fase iniziale che è più corretto parlare di organizzazione senza specificazioni, valorizzando la scelta (proposta da ESTE nel Forum di Sviluppo&Organizzazione) di investire sul termine “dilemma” associato a “organizzativo” e alla riflessione sui possibili modi di ‘ispirazione’ – i quali vengono sempre e comunque da un cortocircuito tra mondi interni dei ricercatori, dei consulenti, dei professional lato sensu – e sulla realtà, a prescindere dalle specificità di questo o quel contesto, dalla capacità di immergersi in essi, cogliendone, sì, le peculiari caratteristiche, i tratti distintivi, ma anche l’omogenia di fondo che attraversa tutti i sistemi di senso.
Mi soffermo dunque su due parole-chiave: “dilemma” e “ispirazione”, concludendo con qualche considerazione su “eccellenza tecnica versus immaginazione”.
Dilemma e ispirazione
Perché dilemma: arte nel mondo antico è téchne (τέχνη), quindi conoscenza mediata dai mezzi – per definizione mai neutrali rispetto allo scopo – in primis la percezione, ossia i cinque sensi: udito, olfatto, tatto, vista, gusto. Quindi gli artefatti (fatti ad arte, effetto dell’arte, artis e factum) sono perni fondamentali su cui si gioca la partita del decision making e dei processi di creazione di valore.
A dispetto di una cultura di ricerca e di una di pratiche aziendali di marca positivistica che insistono sulla dimensione dogmatica, sulle ricette, sui problemi cui corrispondono soluzioni deterministiche “what… if”, credo sia importante pronunciare la natura imperfetta dell’azione organizzativa. Ritengo che sia fondamentale una presa di distanze da un’idea di organizzazione come aggettivo qualificativo, qualcosa che si dà per scontato che sia funzionante (pensiamo ai dogmi dell’efficienza, efficacia ed economicità, grimaldelli fondativi dello statuto dell’Economia aziendale), perché invece “organizzazione” è solo un sostantivo.
Il dilemma, come le contraddizioni, le ambiguità, il conflitto, la crisi, l’involuzione rispetto ai processi di crescita sono parte della fisiologia dell’agire. Lo vediamo e lo viviamo chiaramente in questi mesi, forse anni, di pandemia. Vanno compresi, letti, decodificati. In ultima analisi, vanno gestiti; quindi, dai manager. E qua si staglia l’importanza della seconda parola: ispirazione.
Quali sono le fonti di ispirazione o, meglio ancora, quali sono le fonti della conoscenza organizzativa e quindi dei modi concreti di gestire i processi decisionali a tutti i livelli? Io penso che una di esse, molto potente, anche perché idonea a cogliere il cambiamento degli scenari geopolitici, sia quell’apparato di conoscenze proprie di un’altra etichetta: “umanesimo”, filosofia in primis, ma anche musica e teatro, poesia, pittura, o forme d’arte emergente e di sperimentazione in grado di parlare della contemporaneità. Delle contemporaneità, al plurale.
Credo che se, non solo gli accademici, ma anche i professional, i manager, gli imprenditori imparassero a frequentare attivamente i linguaggi delle arti, potrebbero gestire molto meglio le proprie imprese o gli spezzoni di problemi cui sono chiamati a diverso titolo. In questo senso, anche la formazione manageriale potrebbe e dovrebbe adeguarsi, lasciandosi fecondare dai linguaggi delle arti: non mi riferisco al tradizionale teatro d’impresa o altre formule simili, certo importanti, che fanno leva in buona parte, seppure in via non esclusiva, sulla dimensione metaforica delle arti.
Certo le metafore sono utili se si vuole trattare ‘fuori’ dai contesti tradizionali – uscendo cioè con la mente (mind, il costrutto, non brain, l’organo) dai vissuti tipicamente quotidiani – temi come la leadership e la membership, il Team building o il Team working, per citare i tipici argomenti dove l’arte già entra, in chiave appunto metaforica, in azienda. Mi riferisco invece a una fertilizzazione reciproca tra linguaggi artistici e manageriali, ‘fuor di metafora’.
Noi come gente di management nei nostri ruoli dovremmo avere una reale, materiale, concreta, non solo metaforica formazione artistica – che è praxis (πρᾶξις), in dialogo aristotelico con poiesis (ποίησις) – e in questo modo disporremmo di una cassetta ‘interiore’ degli attrezzi più ricca per affrontare anche questioni di tutti i giorni.
L’arte è millenaria
È questo il punto centrale che spiega la seconda parola scelta per inquadrare il mio intervento: ispirazione. Non una parola astratta, a tratti vanesia o comunque vaga, ma esercizio costante, pratica quotidiana, se e solo se, però, sappiamo recuperare l’etimologia di questo lemma dal verbo latino inspiro, che significa letteralmente “soffiare dentro”, soffio che riempie e possiede la mente umana, dominando poi le prassi.
Il ragionamento fin qua proposto parte da una mia convinzione (con una curvatura dogmatica che potrà essere usata contro di me) che sento il dovere di esplicitare. Affermo cioè una gerarchia nelle forme di conoscenza: l’arte è millenaria, gli studi e le pratiche aziendali sono appena centenarie: nonni e nipoti. Quindi il nostro lavoro di arts and organizations (al plurale) in questo senso, sì, ispira, e addirittura insegna.
Rammentando tra i tanti il contributo del teorico dell’organizzazione Karl E. Weick e il suo sense-making, che include nell’analisi organizzativa il ruolo della percezione; o i lavori di Pasquale Gagliardi, docente di Sociologia dell’Organizzazione (per esempio Symbols and artifacts; o Exploring the aesthetic side of organizational life), su questioni che interessano non solo ricercatori e studiosi, ma anche manager e professionisti.
Eccellenza tecnica versus immaginazione
Ho qualche dubbio sul lemma “eccellenza”, seppur mediato dall’aggettivo “tecnica”, specie se poi contrapposto al concetto di immaginazione. Sappiamo come la prima abbia rappresentato un punto di riferimento fondamentale in periodi di grande sviluppo economico, anche se poi alcune di quelle fasi si riveleranno un po’ ‘drogate’: per esempio gli Anni 80 in Italia, come anche negli Stati Uniti, con quella stagione riconosciuta con non pochi accenti edonistici.
Certo, quella era una risposta emotiva agli anni precedenti, spesso bui in alcune parti del mondo; si pensi a quell’intenso decennio iniziato con gli entusiasmi del Sessantotto e terminato, per esempio in Italia, con l’omicidio Moro, la cui risposta fu appunto una fuga in miti istituzionalizzati, uno per tutti proprio quello dell’eccellenza.
Con un diretto corrispettivo anche nella cultura d’impresa, specie quella maturata nelle grandi multinazionali americane con relativi titoli accademici, tra i quali In search of excellence (Peters e Waterman, 1982). Si trattava di approcci pertinenti in quel momento storico, ma privi – probabilmente – di una marca interpretativa di respiro sufficientemente ampio per leggere anche contesti macroeconomici e manageriali con sguardo di lungo periodo. Generando un deficit di comprensione di ciò che stiamo vivendo: intervalli asintotici tra periodi di espansione sempre più brevi e di crisi dall’eco sempre più lunga, riduzione dello spazio-tempo, innanzitutto nelle nostre menti, ma anche tra popoli e persone in grado di interagire a distanza in tempo reale.
Che fare allora di fronte a questa frattura del mito dell’eccellenza, specie se in posizione antagonista – versus – l’immaginazione? Non ho naturalmente una risposta universale né tanto meno ricette, ma credo sia proprio quest’ultima che, se non contrapposta alla razionalità (più o meno) assoluta che ci aveva consegnato la tradizione economica neoclassica, e se, invece, messa nella posizione dialogico-dibattimentale tipica della tradizione umanistica, può diventare un alleato prezioso.
Linguaggi artistici nelle organizzazioni
Con questo concludo: torniamo a conoscere il campo, dissociandoci dai miti istituzionalizzati, immergiamoci nella vita delle organizzazioni. Conosciamole per quello che sono anche un po’ mettendo di lato i nostri occhiali o provando a sospendere il giudizio.
Entriamo nelle aziende più studiate dalla tradizione così come in quelle meno conosciute, quelle artistiche: senza relegare i linguaggi delle arti in posizione ancillare o strumentale rispetto alle conoscenze manageriali, ma costruendo – con uno slancio di soggettività – una gerarchia anagrafica, rispettosa in chiave intergenerazionale dei significati millenari che anticipano di molto i nostri, appena centenari; possiamo imparare dalle arti e da ciò che sottende a esse, lasciandoci fecondare da significati specifici e idiosincratici, a volte anche difficili da decifrare. E, aggiungo, per questo, perfino più interessanti. Comunque utili ad ampliare il nostro vocabolario organizzativo, quindi la sintassi dell’agire e dell’interagire umano e sociale, gestendo al meglio il fisiologico dilemma organizzativo.
Professore ordinario di Organizzazione aziendale e di Comportamento organizzativo, membro del Consiglio direttivo del Centro Servizi per l’Inclusione Attiva e Partecipata degli Studenti (SInAPSi) e del Comitato Unico di Garanzia (CUG)
organizzazione, arte, management, arts and organizations