Quattro modi di «non» pianificare
La pianificazione è il processo con cui si perviene a determinare la strategia dell’impresa; tale processo richiede l’impiego sistematico di competenze organizzative, di informazioni, di metodi di valutazione. Quando si parla di pianificazione, poi, si sottintende spesso che essa viene svolta in modo formale, cioè con un disegno esplicito che guida le fasi, le modalità, i tempi e le funzioni con cui vari organi aziendali collaborano alla formazione del piano.
L’introduzione della pianificazione formale nelle aziende italiane è relativamente recente, poiché le prime applicazioni di un certo respiro si collocano nella seconda metà degli anni sessanta. Ciò non significherebbe di per sé un ritardo sostanziale rispetto ai Paesi più avanzati del nostro nell’applicazione di progredite metodologie di gestione; ma, mentre altrove la diffusione della pianificazione ha proceduto assai rapidamente, nel nostro Paese si osservano non solo numerosi casi di applicazioni inadeguate, ma soprattutto casi ancora più numerosi di aziende che non si avviano neppure sulla strada della pianificazione.
A commento di un’indagine svolta dall’AIPA nel 1973 per analizzare i modi di applicazione della pianificazione in Italia, si stimava che le imprese private che usano la pianificazione non sono più di cinquanta. Anche se si giudica questa stima troppo bassa, e la si moltiplica per due o per tre, rimane comunque un numero assai piccolo. Si potrebbe essere indotti a spiegare la limitata diffusione della pianificazione, come spesso si fa per altre metodologie gestionali, in relazione alla struttura del sistema economico italiano in cui prevalgono le imprese di piccole e medie dimensioni, oppure in relazione al fatto che i metodi e le tecniche di pianificazione non sono ancora pienamente consolidati.
Ma non è soltanto questione di dimensioni e di metodi, bensì soprattutto di altri fattori, quali: l’accentramento come logica organizzativa d’impresa prevalente; la presunta ‘facilità’ del cambiamento strategico; la carenza delle applicazioni di programmazione a breve termine; la scarsità di informazioni economiche sull’ambiente, in particolare su settori economici e mercati.
Perché non si pianifica
1. L’accentramento. La massima parte delle nostre imprese è stata caratterizzata fino a pochi anni addietro (e in buona parte lo è tuttora) da strutture organizzative e, più ancora, da una cultura direzionale tali da far convergere ai massimi livelli aziendali gran parte delle scelte di gestione, anche di natura strettamente operativa.
Ciò ha comportato un accentramento in misura spesso più ampia di quanto non sarebbe stato desiderabile in termini di efficacia organizzativa, e ciò non solamente nelle imprese in cui i conferenti capitale guidano direttamente la gestione, ma anche in quelle ove si è formata una tecnostruttura operante: anzi, in queste ultime, si assiste talora a forme autocratiche ancora più rigide. Orbene, la pianificazione formale comporta comunque un aumento delle comunicazioni discendenti e ascendenti fra l’alta direzione e altri organi direttivi che richiede un decentramento per la partecipazione, sia pure parziale, degli organi direttivi all’elaborazione delle scelte strategiche, oppure risultati del tutto inefficaci: se invece l’alta direzione vuole mantenere accentrato e riservato il processo di scelta delle strategie, la pianificazione viene a perdere i suoi contenuti e il relativo processo risulta distorto.
2. La ‘facilità’ del cambiamento. Manca talora, ancor prima dell’abilità nell’impostare correttamente il processo, la percezione che la pianificazione formale sia in effetti utile all’impresa ai fini della gestione del cambiamento strategico.
Accade spesso che l’alta direzione di un’impresa, se è riuscita nel passato a compiere scelte valide e redditizie adottando modi non formalizzati di decisione, ritenga di poter seguire la stessa strada anche nel futuro. In particolare, quanto più facile è stata nel passato l’ideazione e l’attuazione dei processi di cambiamento strategico, tanto minore tende ad essere la motivazione a introdurre metodi di pianificazione formale, a meno che non venga percepito con chiarezza che la formulazione di strategie efficaci richieda per il futuro modalità più articolate in quanto il quadro strategico potenziale in cui l’impresa si muove risulta più complesso: tale cioè per cui l’intuito e l’esperienza rischiano di non essere più sufficienti, ed è necessario mobilitare molte più risorse di abilità innovative e disporre di metodi che agevolino l’impiego ordinato di tali risorse e le valutazioni su cui fondare le scelte.
3. Carenze nella programmazione. Un’altra causa che spiega, in una certa misura, la lenta diffusione della pianificazione formale nelle imprese italiane è data dalla carenza delle applicazioni di programmazione a breve termine incentrate sul budget. Ancora oggi molte aziende italiane, e non solo quelle di piccole dimensioni, non hanno realizzato efficaci processi di programmazione e controllo budgetario, a causa di carenze metodologiche o di difficoltà organizzative.
Non è certo agevole, né logico, attuare correttamente un valido processo di pianificazione formale in un’azienda che non abbia un budget ben funzionante e non sappia operare nella logica di programmazione; in tal caso, infatti, non solo mancherebbero alcune strutture informative di base ma sarebbe inoltre carente quell’esperienza di base e quell’abitudine a programmare che costituiscono le premesse necessarie affinché i quadri aziendali possano assimilare compiutamente il significato, l’utilità, l’importanza della pianificazione. Questa, infatti, pur avendo una problematica per alcuni aspetti comune, per altri si presenta difforme, più complessa e più ambigua, rispetto alle programmazioni di breve termine.
4. Scarsità di informazioni. La mancanza di informazioni attendibili e tempestive sulla dinamica ambientale, e in particolare sull’andamento e sulla struttura di mercati e di settori, è un fatto innegabile nel nostro contesto economico. Le fonti di informazione sono scarse, i dati sono spesso poco affidabili o elaborati in ritardo. Le eccezioni al riguardo sono limitate: le analisi e le pubblicazioni di organismi internazionali, le ricerche svolte da imprese private specializzate nella raccolta sistematica di dati su alcuni set-tori/ mercati / canali, talora anche a livello di consumatori finali; l’attività delle associazioni di categoria a livello di settore, dati pubblici e/ o dati forniti dagli associati: è tuttavia raro che tale servizio sia gestito nell’interesse della comunità economica nazionale piuttosto che per alcuni interessi specifici degli associati medesimi, e anche in tal caso, esso è comunque limitato a elementi conoscitivi « non riservati » (e in questo paese il concetto di « riservatezza » è assai restrittivo).
Sono generalmente note le cause di questa situazione di scarsità di informazioni. Vi è in primo luogo l‘inefficienza delle strutture pubbliche attuali a raccogliere dati attendibili e a produrre informazioni tempestive e adeguate. Ma vi è inoltre l’insensibilità della comunità economica al problema dell’informazione come fatto istituzionale e sovrasettoriale e l’indisponibilità a destinare risorse e ad effettuare pressioni e sforzi concreti in tale direzione: come all’interno di molte imprese, si ritrova a livello di comunità economica nazionale l’ipotesi implicita che le scelte di gestione, e in particolare le scelte strategiche, dipendono da « intuizioni » piuttosto che dalla capacità di utilizzare, accanto a molti altri elementi, le informazioni come base conoscitiva per individuare o, più spesso, per verificare ipotesi strategiche innovative.
Quali effetti derivano a livello di singola impresa da questa carenza di informazioni? Si crede di solito che ciò impedisca un sensato processo di pianificazione formale poiché, mancando tali informazioni, le previsioni sono prive di punti di riferimento e divengono affatto inattendibili Anche se diffusa, si tratta di un’opinione errata poiché il non fare previsioni non elimina certo l’incertezza e il rischio della strategia dell’impresa; è vero, tuttavia, che la situazione in esame ostacola un processo sistematico di pianificazione poiché induce costi assai elevati per l’impresa che da sola cura la raccolta e l’elaborazione di alcuni dati di ambiente e di settore. Vi è però da rilevare che il vantaggio potenziale per le imprese che svolgono direttamente tale attività può risultare talora decisivo o assai rilevante come elemento di successo strategico.
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Andrea Rugiadini è professore di Organizzazione Aziendale presso l’Università Bocconi di Milano e l’Università Ca’ Foscari di Venezia. È stato Direttore della rivista Sviluppo&Organizzazione (ESTE) dal 1973 al 1987.
pianificazione, organizzazione aziendale, Sviluppo&Organizzazione