Questione di fiducia
Per quanto possa apparire innovativa la prospettiva dell’economia comportamentale, soprattutto se paragonata al modello dell’Homo oeconomicus rationalis della teoria economica neoclassica, e nonostante la sua disposizione a mutuare dalla psicologia supporti al proprio paradigma, essa rimane basata su un approccio individualista. Del resto, si sa che nelle poche esperienze di interdisciplinarità vige la tendenza a privilegiare le prospettive più compatibili e meno compromettenti per salvaguardare lo statuto di una disciplina.
Così l’economia comportamentale, che certamente non gode di grandi apprezzamenti nel mainstream dominante degli economisti, seppur riceve riconoscimenti a livello di premio Nobel, come è accaduto da ultimo a Richard Thaler, quando deve adottare i supporti delle scienze cognitive e della psicologia per cercare di far fronte a propri problemi paradigmatici lo fa privilegiando il comportamentismo individualista e l’approccio computable. Succede così che finisce per proporsi come una innovazione organizzativa, nella gestione dei rapporti di lavoro e delle motivazioni di chi opera, l’intervento sui singoli lavoratori, basato su forme paternalistiche, accompagnate da invocazioni moralistiche e da “spinte gentili” che spesso fanno leva su richieste di complicità, su ritocchi remunerativi e su forme più o meno velate di subordinazione psicologica o di allusioni e accenni ben celati di minacce.
In tempi di precarietà, non solo per chi ha contratti a tempo, ma anche per chi ha un cosiddetto “lavoro stabile”, ma vive l’incertezza di avvisi notturni di licenziamento via WhatsApp, non è difficile comprendere su quali dinamiche relazionali si fondino simili pratiche. La spinta gentile (nudge theory) propone che sostegni positivi e suggerimenti o aiuti indiretti possano influenzare i motivi e gli incentivi che stanno alla base delle decisioni degli individui, almeno con la stessa efficacia di prescrizioni, istruzioni e coercizioni dirette.
L’azione è sull’individuo che – riprendendo un classico esempio utilizzato per parlare di spinta gentile – essendo maschio urinerà senza sporcare se sarà aiutato da un adesivo raffigurante una mosca, da posizionare al centro dell’orinatoio. Ancora una volta siamo di fronte a un modello di analisi basato sul maschio, medio, occidentale che gioca a carte da solo e agisce individualisticamente di fronte ai fenomeni del mondo. Rientra dalla finestra quello che si cercava di cacciare dalla porta, o forse era sempre stato lì.
Agiamo rispetto a un fenomeno perché gli attribuiamo significato
Ma il lavoro e la sua esperienza che cosa sono per noi esseri umani? In tempi di trasformazione profonda delle forme di lavoro, si può partire dagli aspetti elementari di quello che è un dato originario interno della vita e dell’esperienza di una persona? Siamo esseri intersoggettivi e nell’intersoggettività ci individuiamo, componiamo e ricomponiamo noi stessi. Viviamo di immaginazione, di senso e di significati. È perché attribuiamo significato a un’esperienza e a un fenomeno che lo conosciamo e agiamo di conseguenza. Non viviamo solo di pane, ma anche di rose. A distinguerci non è l’agire immediato e pratico, ma il comportamento simbolico che compone ogni nostra scelta e azione.
Il nostro rapporto con i compiti è un rapporto creativo e non stiamo bene quando non possiamo metterci del nostro nel fare quello che facciamo, o quando non possiamo vivere il riconoscimento del ben fatto. Siamo predisposti per comporre e ricomporre in modi almeno in parte originali i repertori disponibili e nella routine facciamo di tutto per metterci del nostro. Ci motiva la giustizia sociale, la quale genera fiducia e affidabilità, quindi coinvolgimento e impegno.
Il lavoro è relazione intorno a un compito, da cui scaturiscono motivazione, senso e significato. La stessa tecnica è strettamente antropologica e veicolo di riconoscimento e di valore. La produttività e la qualità delle prestazioni lavorative sono connesse alla qualità relazionale nella vita organizzativa. Perché i datori di lavoro, i capi e chiunque abbia ruoli di responsabilità nelle situazioni lavorative non vedono quante possibilità di motivazione, di coinvolgimento, di produttività, di climi organizzativi favorevoli e di qualità dei risultati vi siano in questo nostro modo di essere come umani? Perché ricorrono agli armamentari di una cattiva psicologia, o spontaneamente o sostenuti da azioni consulenziali e formative di stampo illusorio e prescrittivo, sempre quelle ‘del secolo’, proposte in lingua inglese, che ormai formano un vero e proprio dizionario o un’enciclopedia di ferrivecchi che spesso durano meno di una stagione?
Per ogni problema complesso esiste una soluzione semplice ed è sbagliata. Può darsi che gli approcci e gli strumenti prevalenti siano tali da apparire facili e risolutivi con poco impegno e, soprattutto, senza coinvolgere in un processo di cambiamento chi si propone di trasformare e motivare gli altri. Sarebbe di particolare importanza analizzare i costi di quei modi di agire e di quelle scelte. Il modello individualista e liberista è penetrato nei gangli più intimi della vita lavorativa ed è diventato ideologia dominante. “Non riuscirai a capire le tesi di base della tua civiltà, se la tua civiltà è l’unica che conosci”, ha scritto il filosofo Alan Watts.
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Psicologo, oggi insegna Scienze Cognitive Applicate al Paesaggio e alla Vivibilità al Dipartimento di Architettura (Diarc) dell’Università Federico II di Napoli. È Direttore Scientifico del corso Executive di Alta Formazione, Modelli di Business per la Sostenibilità Ambientale, presso Cuoa Business School ad Altavilla Vicentina. Già docente presso le Università degli
Studi di Venezia e di Bergamo, è autore di un ampio numero di pubblicazioni. Tra i suoi ultimi libri: Empatie ritrovate (San Paolo edizioni, 2020); La passione di Venere (Meltemi, 2021). Collabora stabilmente con Doppiozero, Animazione Sociale,
Persone&Conoscenze e Sviluppo&Organizzazione.
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