Qui giace, lavoro
“Demotivante e poco coinvolgente: perché non ci piace più lavorare?”. “Meglio il lavoro ibrido che l’aumento di salario”. O, ancora: “Ritorno in ufficio: potremo sorridere di quel che ci mette a disagio nel rincontrare gli altri?”. Sono solo alcuni dei titoli degli articoli in cui mi sono imbattuta in tempi recenti. Dopo il trend topic delle Great resignation, prosegue un’onda lunga tragico-informativa che precede il momento in cui terminerà anche la possibilità di fare Smart working senza un accordo individuale.
Secondo questa distorta narrazione pseudo-giornalistica pare che rientrare a pieno regime in ufficio somigli molto all’idea di andare al patibolo. L’equazione ‘felicità=meno ore lavorate’ sembra alla base di qualsiasi rivoluzione anelata all’unanimità da coloro che si trovano in età da lavoro, ma soprattutto dai giovani tutti – quegli Under 30 che nemmeno hanno messo piede fisicamente in azienda perché hanno fatto l’onboarding su Teams facendo ‘ciao’ con la manina al monitor – che già sanno di non voler lavorare secondo queste regole e vogliono – per dovere generazionale, naturalmente! – cambiare le cose.
Ai miei non molto lontani tempi, visto che di anni ne ho 38 e posso parlare a nome dei Millennial, a rivendicare rivoluzioni non ci pensavo nemmeno perché, banalmente, offrivo all’azienda il beneficio del dubbio mettendoci piede tutti i giorni almeno per i primi mesi con l’umiltà che dovrebbe contraddistinguere qualcuno che entra in una comunità nuova, in cui si portano risorse e valore e che può contribuire a sua volta al nostro personale percorso di realizzazione. Quando va bene, il lavoro diventa parte di noi e ci declina come individui e, quando questo processo di arricchimento succede, andare in ufficio è una grande soddisfazione.
Il lavoro è opportunità, è addizione e non sottrazione (di tempo, di energie, di opportunità, di chissà cosa ci perdiamo andando in ufficio). Oggi invece, che tutti i giovani pensano di diventare dei manager, dopo il ‘master in business dell’xyz’ si sentono già dei businessman navigati, in diritto di poter dire la propria in casa d’altri, senza nemmeno avere l’umiltà di raccogliere dati oggettivi sul campo forniti dall’unica cosa che può darglieli: l’esperienza. Basandosi sulle argomentazioni semplicistiche che i media (soprattutto i social) contribuiscono a fomentare quotidianamente, con quella narrazione del lavoro che se non ti consente di bere una tisana calda al portatile e digitare sulla tastiera al ritmo delle campane tibetane allora ti porterà certamente al burnout!
Dalle solite statistiche (che ormai sono una la copia dell’altra) che coinvolgono la Generazione X, la Y, la Z, passando per i Millennial, sembra che il lavoro abbia ormai le ore contate. Perché l’importante per questi pseudo-rivoluzionari sarebbe poterlo fare a casa, in ciabatte, potendosi collegare a telecamera spenta alla riunione e con un bambino febbricitante al fianco. Così i bisogni di tutti sono soddisfatti: con un occhio lavoro e con l’altro controllo il moccio al naso.
Questa attenzione a volo d’uccello su tutto, bloccata nel concentrarsi appieno su una sola cosa è forse quanto di più simile all’anticamera del burnout. Quel ‘posso tutto’ che illudendoci di poter controllare e fare più cose contemporaneamente, in nome del maledetto multitasking – se trovo quello che l’ha teorizzato gli scavo la fossa a mani nude – ci impedisce di capire che siamo sì schiavi di un sistema, ma che questo non è l’ufficio o il cartellino da timbrare. Bensì un organismo più grande che con l’illusione del poterci concedere qualche ora per portare all’asilo i bambini in realtà evita lui stesso di investire risorse per far sì che le persone possano garantire un livello di produttività adeguato al sostentamento della società senza giocarsi la salute, magari guadagnandoci anche in prosperità e soddisfazione.
L’espressione del momento è “you only live once (yolo)”, perciò perché perder tempo a lavorare quando posso fare l’influencer e guadagnare milioni con un post sponsorizzato su Instagram o il travel blogger che si destreggia tra mail e un cocktail sulla spiaggia mentre attraversa il Rio delle Amazzoni con la canoa sponsorizzata dalla super fibra di Teléfonica? Il paradiso personalmente me lo immagino un po’ diverso da una vita in cui si lavora semplicemente meno o a bordo di un camper che gira l’Italia. Il punto sarebbe lavorare meglio e andrebbe evitata la banalizzazione che collega questo ‘meglio’ al ‘meno’. Nel mio paradiso c’è qualcosa di simile alla felicità che mi dà l’uscire da una casa in cui dopo quei tot giorni passati in tuta al computer mi sento un po’ marcire e per cui mi sembra di perdermi la vita. Questa, da che il mondo è mondo, la letteratura ci insegna che è ‘fuori’ (di casa, ma soprattutto fuori ‘di noi’, ossia nell’incontro con l’altro, sicuramente non su Teams), in quel fernweh, quella voglia di partire e aprirsi all’ampio anziché all’angusto, cosa che comporta ovviamente l’abbandono – almeno temporaneo – della quotidianità e del nido familiare.
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