(Re)imparare il significato della parola “lavoratore”

Potrebbe sembrare una considerazione di relativa importanza nella ricostruzione, che si annuncia oltremodo faticosa e complessa, del tessuto economico e produttivo interno. Ma credo vada riscoperta nella sua autentica essenza la nostalgica e orgogliosa attribuzione del termine “lavoratore” e di tutto ciò che a esso attiene.

Soprattutto negli ultimi tempi, con l’avvento sempre più spinto delle tecnologie e con il contemporaneo progressivo decremento nel nostro Paese delle attività di produzione propriamente dette, questo vocabolo dal sapore antico ha finito per essere sempre più ricondotto quasi in via esclusiva a coloro che agiscono lungo una catena di montaggio oppure in contesti assimilabili alla manualità.

“Lavoratore”, insomma, associato spesso al concetto di sforzo, sudore – magari destinatario di una retribuzione, anzi, di un salario, per rimanere in tema, non esattamente corrispondente all’impegno profuso – e, non di rado, a quello, purtroppo, di precarietà.

Dal colletto blu al collaboratore

Oggi, infatti, abbiamo reinventato e riscritto un dizionario per il quale, in maniera più o meno lessicalmente (e)voluta, si è cercato di by-passare il ricorso alla parola lavoratore per approdare a una lunga teoria di sinonimi di sicuro più eleganti, ma che ne rendono meno nobile il concetto.

Così, citandone solo alcuni a titolo di esempio, si parte dallo storico distinguo tra colletto bianco e colletto bluwhite collar and blue collar, perché, per qualcuno, in inglese suona meglio e identifica un’indole che sa di globalizzazione – per passare all’addetto, attribuzione che, seguita da un complemento di termine, già preconizzava ante litteram un sotteso ambito di specializzazione, come si caratterizza attualmente l’orientamento professionale nel mercato del lavoro.

Intorno agli Anni 2000 ecco, invece, stagliarsi prepotentemente nel linguaggio imprenditoriale una parola magica, che allo stesso tempo dice tutto e dice niente: “collaboratore”. ‘Figlio’ anche dell’introduzione di una precisa strategia di comunicazione politica dell’epoca, questo sostantivo comincia a essere declinato nel mondo delle aziende anche a seguito dell’istituzione del cosiddetto Premio di risultato, in base al quale si disciplina tramite accordi sindacali di secondo livello l’erogazione collettiva di importi legati al raggiungimento di obiettivi chiaramente individuabili di produttività, redditività e qualità dell’azienda intera o di una parte di essa. Il lavoratore, insomma, compartecipe e corresponsabile dei successi (o degli insuccessi) dell’impresa e per questa ragione meritevole di essere gratificato.

Dalle Risorse Umane al People Welfare

Di sicuro la parola “collaboratore” ha aperto frontiere sconfinate e ben presto assunto il carattere della omnicomprensività, quasi senza distinzione di ‘casacca’ giuridica. Più dinamica, invece, è stata la evoluzione terminologica della ‘mitica’, sotto certi aspetti, Direzione del Personale, ritenuta ai tempi un moloch invalicabile.

Accompagnata negli ultimi anni dal mantra che l’asset più importante è costituito dalle persone, la specificazione in chiave contemporanea va da “Risorse Umane”, “Capitale Umano” (è indubbio, però, parlando di risorse e capitale, come il riferimento immediato finisca per contemplare un significato di matrice e derivazione finanziaria) e “People”, cominciando in qualche caso a essere affiancata da “Welfare”.

Queste accezioni, che manifestano diverse modalità di concepire economicamente, politicamente e aziendalmente il ruolo di chi presta la propria attività, non dovrebbero far dimenticare che ognuno è, resta, un lavoratore, nell’ottica del significato della parola latina da cui deriva: “labor”, ovvero “fatica”. Ancora più profondo è il senso se ci riferiamo alla radice sanscrita del termine “labh”, che rende maggiormente l’idea di qualcosa che si afferra, che si produce, che si costruisce.

E allora quella attuale è la fase storica in cui deve essere rivalutata la recondita e concreta bellezza della parola lavoratore. Tutti devono immedesimarsi senza riserve nella parola “lavoratore”. Riconquistare, cioè, quella consapevolezza che la ripresa sarà possibile soltanto se ognuno non si limiterà a fare sic et simpliciter la propria parte, ma darà valore aggiunto a quello che fa. Magari con l’acquisire la giusta forma mentis non dimenticando coloro che un 18 maggio avrebbero tanto desiderato viverlo da protagonisti attivi e non da neo disoccupati.

risorse umane, lavoratore, collaboratore, linguaggio

Tomasin

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