Riconvertire la produzione nell’emergenza coronavirus
Sono sempre di più le aziende italiane che di fronte all’emergenza coronavirus decidono di convertire le linee e gli standard di produzione per fabbricare ciò che è necessario e urgente per evitare un’ulteriore diffusione dell’epidemia, a partire dai dispositivi di protezione individuale.
Ci sono imprese tessili che da alcune settimane hanno iniziato a produrre mascherine, considerato che la domanda è molto elevata e alcune forniture dall’estero sono state bloccate, ma c’è anche chi è passato dalla produzione di cosmetici a quella di gel igienizzanti.
“È un fenomeno che sta incrementando di giorno in giorno. Questo dimostra che le aziende hanno capito che possono guardare al loro interno e analizzare quali risorse e competenze possono mettere in campo in questo momento e in che modo”, spiega Luciano Fratocchi, Professore Ordinario di Ingegneria Economico Gestionale presso il Dipartimento di Ingegneria Industriale e dell’Informazione e di Economia dell’Università dell’Aquila e Co-fondatore del Gruppo di ricerca Uni-Club MoRe reshoring.
Questo processo di trasformazione, che tante imprese stanno decidendo di intraprendere, necessita di una guida e di un coordinamento a livello centrale. “Significa capire cosa serve, come e dove perché poi i territori reagiscono in maniera diversa e quindi potremmo trovarci con degli scompensi, dato che ci sono alcune aree del Paese in cui ci sono imprese molto reattive e altre in cui ce ne sono meno”.
Collaborazione tra le imprese e vincoli
Di fronte all’esigenza di ripensare la produzione, si stanno formando reti di imprese che cercano di individuare delle soluzioni per collaborare e reinventarsi. Per favorire questa transizione molte università si stanno mettendo a disposizione delle aziende e dei territori.
“È una pagina bellissima del rapporto tra atenei e mondo delle imprese e fa capire che ci si può incontrare in un punto intermedio. Dimostra, infatti, che l’università non è solo teoria e che le aziende possono trovare un contatto utile, operativo. Ancora una volta, in Italia, stiamo dimostrando di avere la capacità di reagire molto bene alle emergenze. Dovremmo imparare da questa esperienza e continuare anche in futuro a guardare alle risorse e alle competenze che abbiamo”, continua Fratocchi.
Secondo il docente, un tema su cui è necessario interrogarsi è quello della tutela della proprietà industriale in tempi di emergenza. “Mi viene in mente il caso di quei fisici e ingegneri che, avendo saputo che c’era un componente dei ventilatori per cui un ospedale stava andando in crisi, lo hanno riprogettato e fatto fare a una serie di maker”.
“L’azienda che aveva la proprietà del disegno non lo ha messo a disposizione. Con questo atteggiamento ha sicuramente danneggiato la sua immagine. Mentre l’unico produttore italiano esistente ha deciso di spiegare ai propri clienti all’estero la situazione e ha messo a disposizione dei nostri ospedali le forniture che gli erano già state commissionate”, ricorda Fratocchi.
I tentativi di riconversione della produzione nascono anche dall’esigenza di non chiudere gli stabilimenti. Nel settore tessile molte aziende stanno trasformando una parte della produzione per fabbricare mascherine e si trovano a dover far fronte a una serie di vincoli di carattere autorizzativo.
Questo problema è stato in parte risolto dal decreto “Cura Italia”, che prevede la possibilità di produrre mascherine chirurgiche in deroga alle norme vigenti, a patto che i dispositivi di protezione ottengano l’approvazione dell’Istituto Superiore di Sanità.
L’esperienza di Almatex e Calze Ileana
Almatex di Busto Arsizio, azienda tessile specializzata in biancheria per la casa e bavaglini per neonati in provincia di Varese, si è rivolta alla Protezione civile locale per capire come fare per ottenere la certificazione. “Esistono alcune deroghe al marchio CE, ma dobbiamo comunque documentare tutta una serie di dettagli tecnici per i quali ci stiamo avvalendo dell’aiuto delle autorità locali”, racconta il Responsabile Commerciale Gabriele Alabardi.
Quelle prodotte da Almatex sono mascherine in tnt, lavabili fino a cinque volte, anche usando del disinfettante. L’azienda, grazie allo sforzo dei dipendenti e dei fornitori, è arrivata a produrre tra le 10 e le 12mila mascherine al giorno. “Un ottimo risultato, se teniamo conto del fatto che sono cucite e tagliate a mano”, sottolinea Alabardi.
Anche l’azienda bresciana Calze Ileana da una decina di giorni ha riconvertito 10 delle proprie macchine di produzione per fabbricare mascherine multiuso, lavabili fino a 40 gradi e indossabili almeno 20 volte. “Le nostre fasce sono prodotte con una fibra in poliammide con ioni in argento che permette di regolare la proliferazione batterica con un’efficacia duratura, l’efficacia batteriostatica è stata testata dall’istituto Mis Plus di Zurigo”, spiega Luca Bondioli, CEO della società.
In accordo con la Regione Lombardia, l’azienda ha inviato i modelli al Politecnico di Milano, che farà i test per verificare se questi dispositivi di protezione sono conformi alle indicazioni di legge. “Una volta approvato il prototipo, per il quale siamo partiti da un manicotto che viene usato nel mondo della moda, le modifiche sono state abbastanza semplici”, dice Bondioli.
Lo sforzo maggiore, però, è stato cambiare il processo: “Non sapevamo che problematiche avremmo potuto trovare nella fase di tessitura. Molte aziende del bresciano ci stanno già chiedendo le mascherine per poter riprendere a lavorare. Siamo passati da produrre 2mila pezzi al giorno a 20mila e potremo tranquillamente arrivare tra i 60 e gli 80mila”, conclude Bondioli.
Diastar salva grazie al tessuto che aveva in magazzino*
Un altro esempio virtuoso riguarda Diastar Group, che rischiava di chiudere perché gli ordini, in un mese, si sono azzerati. Questa piccola azienda del torinese si è invece salvata riconvertendo la produzione in appena due giorni. La ditta, che ha sede a Grugliasco, è specializzata in frese diamantate per il settore dentale ma in passato produceva abbigliamento odontoiatrico con tessuti antibatterici, idrorepellenti, impermeabili, ionizzanti, termoregolanti e autoclavabili.
Nel magazzino aveva ancora interi scatoloni di questi abiti per i dentisti che però ormai non vendeva più. Quindi è nata l’idea di utilizzare il tessuto battericida per produrre mascherine protettive.
“Abbiamo deciso di smontare questi camici e provare a realizzare mascherine dotate di una speciale membrana interna di particelle d’argento che permette una potente azione biocida. Rispetto a quelle viste in giro sono molto più efficaci e possono essere utili anche nelle aziende che sono alla disperata ricerca di questi dispositivi. Siamo in attesa del nulla osta dell’Istituto nazionale della sanità, che dovrebbe arrivare a breve”, racconta Paolo Panebianco, direttore commerciale di Diastar Group.
L’alternativa sarebbe stata chiudere fino alla fine dell’emergenza e usare la cassa integrazione per i dipendenti perché, spiega Panebianco, “in questo periodo anche i dentisti sono fermi”. Con il tessuto che ha in magazzino l’azienda riuscirà a produrre 50mila mascherine ma già si sta attrezzando con i fornitori per avere altro tessuto e andare avanti. “È tutto rallentato quindi non abbiamo certezze nemmeno sui tempi degli approvvigionamenti. Con il nostro prodotto vogliamo aiutare tante aziende di altri settori che hanno lavoro e consegne da fare ma sono in difficoltà perché non riescono a trovare le mascherine. Dai supermercati all’Automotive, possono essere valide in vari settori”.
Siamo stati subissati di richieste”, spiega ancora Panebianco, “oltre che da aziende anche da parte di farmacie, case di cura, centri per anziani, comunità e ovviamente privati cittadini. Il team, con un età media di 40 anni e composto da otto persone, per lo più donne, sta lavorando con turni che vanno dalle 8 del mattino alle 22”. L’attuale capacità produttiva è di 2.500 dispositivi al giorno ma sta quotidianamente aumentando grazie alla creazione di un network di confezionisti creato in pochi giorni.
Una mascherina garantisce ben 50 utilizzi essendo lavabile a 40 gradi. Una parte del ricavato delle vendite sarà destinata a scopi benefici. Per ogni confezione che sarà venduta, conclude Panebianco, “devolveremo 1 euro all’Associazione Arkè – Un dentista per amico, con cui lavoriamo da anni e che offre cure dentali gratuite ai bambini di tutta Italia che vivono in situazioni economiche di disagio o in comunità protette. Abbiamo deciso di destinare una parte del ricavato ad una onlus di questo tipo, semplicemente perché non si parla di tutte queste organizzazioni minori benefiche che anch’esse patiranno gli effetti della forte crisi economica che colpirà tutti”.
*Il capitolo Diastar salva grazie al tessuto che aveva in magazzino è stato scritto da Claudia Luise
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