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Rilancio del Sud, cercasi statisti

Nel recente Decreto legge dal titolo ‘’Disposizioni urgenti in materia di politiche di coesione e per il rilancio dell’economia nelle aree del Mezzogiorno del Paese’’, uno degli articoli ha previsto – a proposito della programmazione e utilizzazione delle risorse del Fondo sviluppo e coesione (Fsc) – che il Ministero per il Sud e le Regioni definiscano d’intesa un Accordo per la coesione per individuare gli obiettivi di sviluppo da perseguire attraverso la realizzazione di specifici interventi (anche con il concorso di più fonti di finanziamento).

Tali interventi devono essere specificati e selezionati all’esito di un’istruttoria espletata congiuntamente dalla Regione e dal Dipartimento per le Politiche di Coesione della Presidenza del Consiglio, soprattutto ai fini della loro coerenza con i documenti di programmazione europea e nazionale. Si prevede altresì che la dotazione finanziaria del Fsc debba essere impiegata in coerenza con le politiche settoriali e con le politiche di investimento del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), secondo principi di complementarità e  addizionalità.

Negli Accordi di coesione devono essere previsti cronoprogrammi di realizzazione di ciascun intervento, con l’indicazione dei traguardi intermedi e finali, dell’entità delle risorse destinate alle città metropolitane ove esistenti (come in Puglia), dell’indicazione degli impegni reciprocamente assunti fra Ministero e Regione, della parte di Fsc eventualmente destinata al finanziamento della quota regionale di cofinanziamento dei programmi regionali europei, del piano finanziario dell’Accordo articolato per annualità, e infine dei principi per la definizione del sistema di gestione e controllo dell’Accordo nonché di monitoraggio dello stesso.

Queste disposizioni – con l’intero Decreto legge passano ora al vaglio del Parlamento per la conversione – hanno suscitato critiche e reazioni di qualche Governatore, visibilmente contrariato perché cambierebbero in profondità le precedenti modalità di impiego delle risorse assegnate alle Regioni a valere sul Fsc. Si teme, in sintesi, una sottrazione di sovranità nell’impiego delle quote assegnate dal Fsc e un loro appostamento in programmi di spesa sottratti alla discrezionalità delle Regioni e da concordarsi, con procedure definite dirigistiche, con il Ministero per il Sud, previa un’istruttoria del Dipartimento per le politiche di coesione operante presso la Presidenza del Consiglio.

Affidare più responsabilità alle Regioni

Ora, non v’è dubbio che gli Accordi di coesione – se in sede di conversione ne verranno conservate le modalità di definizione dei contenuti con i relativi cronoprogrammi di attuazione – tendano a consolidare il raccordo centro-periferia nell’utilizzo di risorse che ormai deve essere sempre più coerente con i documenti di programmazione europea e nazionale. Ma chiediamoci – invitando tutti i protagonisti del dibattito a un confronto il più possibile pacato e focalizzato esclusivamente sul merito della norma – si è proprio sicuri che non convenga alle stesse Regioni il contenuto di un Accordo di coesione, redatto congiuntamente con il Ministero, e con la definizione di obiettivi intermedi e finali e delle relative annualità dei singoli piani finanziari?

Riflettiamo. In primo luogo sarà sempre la Regione la portatrice di proposte di sviluppo del proprio territorio e di linee d’azione per perseguirli, che poi dovranno essere compiutamente definite d’intesa con il Ministero per il Sud, previa istruttoria espletata congiuntamente fra il Dipartimento per le Politiche di Coesione e le tecnostrutture regionali. Una Regione che abbia una solida visione programmatoria della sua crescita saprà indicare con sicurezza gli obiettivi da concordare con il Ministero che, peraltro – e anche questo, a nostro avviso, è un vantaggio per l’ente territoriale – dovranno essere coerenti con i documenti di programmazione europea e nazionale: il che significa per la Regione agganciarsi a obiettivi di crescita di rango comunitario, ai quali dovranno uniformarsi gli stessi documenti di programmazione nazionale, superando ove esistenti ritardi redazionali e disallineamenti.

In secondo luogo, non è interesse della stessa Regione che si stabiliscano cronoprogrammi di impiego dei fondi, con l’individuazione delle mete intermedie e finali? Tale impostazione rappresenta indubbiamente una sfida per gli apparati amministrativi locali che dovranno impegnarsi, sempre a vantaggio dei cittadini (contribuenti), nel raggiungimento di obiettivi stabiliti congiuntamente con il Ministero che sarà impegnato, esso stesso, nel conseguimento degli ‘impegni reciprocamente assunti’. In altri termini, la sfida dell’efficienza vale per tutti, al centro come in periferia.

In terzo luogo la definizione di un piano finanziario dell’accordo, articolato per singole annualità, non aiuta forse la Regione a gestire al meglio i suoi impegni di competenza e di cassa? E infine, non è apprezzabile che si vogliano definire, fra Ministero e Regione, i principi del sistema di gestione e controllo dell’Accordo, nonché di monitoraggio dello stesso per darne poi piena contezza ai cittadini?

Abbandonare le contrapposizioni

Certo, è comprensibile che l’architettura definita degli Accordi di coesione voluti dal Ministro Raffale Fitto possa apparire agli occhi di qualcuno dirigistica – aggiungerei macroaziendalista – come un sorta di ‘grande business plan’ concordato fra Ministero e Regione. Ma, almeno per la durata attuativa del Pnrr, non sarebbe utile al Paese un sano dirigismo concordato d’intesa fra Stato e Regioni? Senza dimenticare che siamo in una fase in cui come Unione europea siamo impegnati in una sfida competitiva durissima con Usa e Cina…

In questo scenario non è utile per le Regioni, l’intero Paese e i suoi cittadini provare a superare – sia pure con comprensibile fatica – ogni forma di provincialismo per puntare a collocarsi a pieno titolo in un convoglio produttivo saldamente legato all’Ue? Allora, a nostro sommesso avviso, sarebbe opportuno che siano dismesse contrapposizioni muscolari a quanto stabilito del Decreto legge in via di conversione e ci si comporti da statisti anche nelle sale, a volte troppo anguste, degli Uffici di Presidenza di qualche Regione del Sud. Ma anche del Nord.

economia italia, Sviluppo Sud, rilancio sud


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Federico Pirro

Articolo a cura di

Federico Pirro è Docente di Storia dell’Industria nell’Università di Bari e ha insegnato anche nell’ateneo di Lecce Economia del territorio e Giornalismo economico. È autore, fra gli altri, di Grande Industria e Mezzogiorno (1996-2007), con prefazione di Luca Cordero di Montezemolo, (Bari, Cacucci 2008) – cui sono stati conferiti nel 2009 il Premio Sele d’Oro Mezzogiorno e il Premio Basilicata per la saggistica – e di saggi su riviste e in volumi collettanei, fra i quali L’economia reale nel Mezzogiorno, a cura di Alberto Quadrio Curzio e Marco Fortis (Bologna, Il Mulino 2014). Nel 2016 gli è stato conferito dal Centro Nuove proposte di Martina Franca il Premio Menichella per i suoi studi sull’industria nel Sud. Dal 1977 al 1995 è stato amministratore anche con cariche di Presidente e Vice Presidente di imprese pubbliche e private – fra cui Insud, Finvaltur, Valtur Sviluppo, Agis-Gruppo ABB, Breda Fucine Meridionali – e dal 1995 al 2000 e dal 2007 al 2016 consulente di Presidenza della Regione Puglia sulle problematiche dello sviluppo. Dal settembre del 2015 al giugno del 2018, su nomina del Ministro Graziano Delrio, è stato componente ‘esperto’ della Nuova Struttura tecnica di missione del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Dal 2012 al 2016 è stato consigliere della Svimez, e dal 2015 siede nel Comitato scientifico della SRM-Gruppo IntesaSanPaolo. Dal 2000 al 2015 è stato editorialista del Corriere del Mezzogiorno/Corriere della Sera e con del suo settimanale Mezzogiornoeconomia. Oggi collabora con La Gazzetta del Mezzogiorno, i mensili Economy e Investire, con testate online e ha curato per la Rai e il Gruppo televisivo pugliese Telenorba trasmissioni sull’industria in Puglia.

Federico Pirro


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