Formazione_tecnica

Scuola, formare i tecnici del Made in Italy

In un mio recente articolo pubblicato sul magazine FabbricaFuturo.it avevo indicato che il Ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara stava facendo predisporre una “grande campagna di orientamento scolastico” che, con il coinvolgimento delle imprese, sarebbe in grado di fornire alle famiglie degli studenti che devono scegliere la scuola secondaria di secondo grado, una serie di informazioni sui settori economici che offrono le migliori prospettive occupazionali. Inoltre, ho illustrato che l’intenzione di Valditara sembrerebbe di non lasciare nelle mani dei soli docenti il compito di consigliare la scuola del futuro e di “consegnare a mamme e papà” un identikit dell’economia del nostro Paese in modo che via sia un incontro tra il sistema scolastico attuale e le competenze richieste dal mercato.

Mi chiederei subito se oggi c’è stabilità nel sistema economico che si vorrebbe descrivere nell’identikit, soprattutto per quello industriale e per gli scenari che si stanno prefigurando, perché potrebbe anche esserci il grande rischio di prevedere una ‘nuova scuola’ guardando nello ‘specchietto retrovisore’, anziché immaginando altri scenari che potrebbero succedere.

Nello stesso articolo avevo osservato, infatti, che l’identikit dell’economia italiana, di cui se ne sta occupando il Ministero per fare l’orientamento, non dovrebbe prendere in considerazione solo l’economia delle imprese, ma sarebbe necessario che prendesse in considerazione – visti i tempi che corrono – anche l’employability dei lavoratori. E avevo pure aggiunto nella mia riflessione che quest’ultimo è un argomento solitamente disatteso.

Riprendo allora una ricorrente osservazione, approfondita nel mio libro Ricostruire l’istruzione tecnica, che la scuola non deve guardare solo al mondo delle imprese e non deve costruire un’educazione a servizio delle imprese (con le quali certamente si deve dialogare con intensità); piuttosto serve che guardi al mondo dei lavoratori e quindi si occupi della loro employability, che è variabile nel tempo. In che modo? Costruendo conseguentemente un progetto formativo a servizio dell’employability e della sua variabilità. Tutto questo, ancor di più in condizioni di instabilità economiche come quelle attuali.

Incrementare produttività e salari

“Economy” ed “employability” sono due cose ben diverse, sia pur con molte interconnessioni tra loro. Le imprese determinano l’economy e l’obiettivo che perseguono sono i risultati aziendali, servendosi dell’employability più conveniente al loro raggiungimento. Se analizzassimo i salari medi annui in Italia dal 1990 al 2020, che sono comunque esito delle politiche di employability applicate, osserviamo che sono diminuiti di circa il 3% (dati Ocse). Sempre nello stesso periodo, l’aumento della produttività per ora lavorata è stata invece di circa il 23% (dati Ocse).

A questo punto c’è il solito dilemma che ha accompagnato le nostre politiche economiche e sociali, dove ci si è chiesti se per far crescere i salari sia necessario agire prima sulla produttività, oppure, ipotesi contraria, immaginare che la produttività possa crescere solo se crescono prima, o contemporaneamente, i salari.

La clusterizzazione delle imprese osservate, anche quelle dei settori industriali, ci dice anche che la categoria delle sales company di beni industriali presenti nel Paese, e per lo più appartenenti a gruppi stranieri soprattutto tedeschi, negli ultimi 30 anni ha incrementato notevolmente la produttività ben oltre il 23% e allo stesso tempo i salari, attivando politiche di innovazione strettamente legate alla crescita e allo sviluppo delle risorse umane e quindi delle competenze. Altre categorie, per diverse ragioni non l’hanno fatto.

Superare l’inadeguatezza della formazione

I fatti recenti, soprattutto la situazione economica complessiva delle nostre imprese industriali, ci riportano a guardare con più attenzione il tema dell’employability per capire se effettivamente l’istruzione tecnica possa essere una leva per sostenere politiche occupazionali che riducono la precarietà e che aumentano i salari (cosa che sarebbe essenziale anche per allargare il mercato). Per scendere nella concretezza mi metto nei panni di chi deve costruire l’identikit dell’economia del Paese e deve raccontarlo a chi si dovrà occupare di orientamento e alle famiglie che se ne dovranno servire, partendo dall’osservazione della situazione attuale.

Mi limito, come sempre (e per le tante ragioni più volte spiegate), a prendere in considerazione l’economia industriale, che però trascina l’economia del Paese e del mondo intero. Osservo l’istruzione tecnica e la sua importanza, chiamandola, per le ragioni indicate nel libro, “Technical education”. Come spesso ho scritto, l’istruzione tecnica, non deve essere la risposta reattiva ai bisogni delle imprese e non deve essere progettata solo sulle specifiche esigenze delle aziende. C’è molto di più di cui occuparsi.

In ogni caso, nella riprogettazione delle architetture formative di cui ha bisogno il nostro sistema scolastico e nel superamento dell’obsolescenza e inadeguatezza curricolare dei nostri ordinamenti si deve essere in grado di conoscere e rappresentare molto bene il sistema industriale con le sue professioni, prevedendo anche le loro possibili evoluzioni. La riprogettazione o, meglio, la ricostruzione dell’istruzione tecnica di cui avrebbe bisogno il Paese, deve però guardare ben oltre le esigenze odierne delle aziende, talvolta espresse come un bisogno contingente on demand, di tipo settoriale, territoriale, temporale.

Ciò non ci esonera dal trovare – anche con urgenza – una soluzione ai bisogni immediati delle imprese, prestando attenzione all’applicazione della giusta ‘terapia’, dove è necessario distinguere l’addestramento professionale dalla formazione professionale e dall’istruzione tecnica. Tre ambiti diversi tra loro.

La Technical education per rilanciare l’economia

Ho più volte scritto e argomentato sulla grave mancanza di tecnici reclamata dalle aziende (ma servirebbe una categorizzazione di questi tecnici), come causa della non crescita dell’economia e della non performante produttività, analizzando anche gli impatti sui nostri conti economici e sul Prodotto interno lordo.

Questo disallineamento, su cui hanno scritto in molti, che dovrebbe essere definito patologico per non essere stato previsto, monitorato e soprattutto affrontato a tempo debito, potrebbe modificarsi anche repentinamente, sperando addirittura che non si capovolga per tutti quei fattori di instabilità che stanno connotando l’economia europea (pure quella italiana). Tempo fa coniai l’acronimo Te4Ipe, dove “Te” indicata la “Technical education”, seguita da altre lettere che significavano le sue funzioni d’uso. Mi sembra ancora attuale e per questo torno a proporlo.

La “I” indicava l’innovazione, perché c’era (e c’è ancor di più oggi) la necessita di fare innovazione: le nostre aziende hanno innovato poco, ma anche l’innovazione in Europa nei settori strategici non è stata sufficiente per mantenere una buona competitività con i colossi mondiali a partire dagli Stati Uniti, e oggi ne portiamo le conseguenze. Ma la “I” riguardava anche gli investimenti, intendendo che laddove c’è una buona istruzione tecnica e quindi ci sono dei buoni tecnici, è più alta la possibilità di attrarre nuovi investimenti.

Con la “P” indicavo “produttività” e “performance”: abbiamo bisogno di una economia dove la produttività non è piatta, come è stata negli ultimi decenni e poco performante. Infine, con la “E” era indicata dapprima l’employability, che in qualche modo potrebbe essere interpretata come l’occupabilità. L’employability è importante non solo per avere un tasso di disoccupazione basso, ma soprattutto per ottenere un numero elevato di occupati con contratti stabili e non precari, e salari medio-alti, per sostenere il welfare a partire dal sistema previdenziale. Ma la “E”, in una visione allargata, può significare anche “emigrazione”, perché l’istruzione tecnica è assolutamente funzionale a valorizzare l’emigrazione economica e anche ad aprire, per le nostre aziende, nuovi mercati di esportazione finora disattesi.

Tutto ciò significa che una buona Technical education è in grado di generare tutte quelle condizioni per far crescere un sistema economico, anche indipendentemente da chi siano le imprese che ne beneficeranno, a partire da un’alta potenzialità di employability che, in talune situazioni, potrebbe essere la prima priorità di una riforma scolastica.

Il continuo calo dell’Ue rispetto a Usa e Cina

Gli scenari che ci prospettano i fatti recenti non sono entusiasmanti. Ci chiediamo se la lunga crisi dell’industria italiana e dell’Unione europea, sia l’esito di ciò che è già successo in altri periodi o c’è invece da preoccuparsi. Osserviamo che stanno cambiando molte cose e sembrerebbe che manchi, nel nostro Paese, una visione sul futuro, almeno riguardante un piano industriale.

Il rapporto Draghi sulla competitività dell’Europa ci fa ha fatto capire che non possiamo stare tranquilli: dobbiamo prendere immediata consapevolezza, attivare misure e investire con tutti i 27 Paesi dell’Ue almeno 800 miliardi di euro all’anno per recuperare la competitività nei confronti degli Usa e della Cina. La competitività altro non è che la ‘quota di mercato’ dei nostri sistemi economici nel mercato mondiale, e l’Europa, negli ultimi decenni, ne ha perso importanti quote, che potrebbero ulteriormente diminuire. Poi, a settembre 2024 abbiamo avuto il 20esimo calo consecutivo della produzione industriale italiana anche a seguito della crisi della Germania, e l’Istat ci ha confermato che: “Nel terzo trimestre il Pil è rimasto fermo e il risultato è stato peggiore della media Ue”.

Se entrassimo nel dettaglio di alcuni settori economici industriali, come l’Automotive, non c’è proprio da stare tranquilli, a partire da quanto sta succedendo in Germania, ma non solo: oltre a essere la locomotiva d’Europa, Berlino è il player principale che ‘trascina’ a fondo molte nostre aziende, soprattutto del Nord e appartenenti alla catena di fornitura di colossi industriali (si tratta di imprese di non grande dimensione, che sono le prime ad andare in sofferenza). Per non parlare poi del mondo Stellantis e dell’indotto che ci sta attorno, aggiungendo anche le difficoltà di un altro settore manifatturiero, quello dell’elettrodomestico, che aggrava complessivamente la situazione del comparto della meccanica e affini”. Commentando gli ultimi (brutti) dati del comparto, il Vicepresidente di Federmeccanica Diego Andreis, ha recentemente affermato: “Non c’è altra via che puntare sulla competitività: da un lato abbassando i costi e dall’altro incentivando gli investimenti in ricerca, sviluppo e innovazione”.

Certamente l’innovazione è la strada maestra, ma per ottenere i risultati ci vuole tempo e le nostre imprese italiane si contraddistinguono storicamente per una spesa in ricerca e sviluppo bassa, se confrontata con quella dei concorrenti di altri paesi. Ecco una delle cause per cui siamo l’anello debole di molte Supply chain. E per fare innovazione servirebbe anche una base di competenze solide che originano da una istruzione tecnica adeguata. E qualora ci fosse una buona istruzione tecnica, come si può fare innovazione e produttività se le professioni tecniche non sono attrattive nel mercato del lavoro, anche per una politica salariale bassa? È una domanda importante.

Ma c’è di più. La recente elezione di Donald Trump come nuovo Presidente degli Usa e la politica economica che potrà scaturire dalla sua vittoria elettorale (probabilmente basata su misure protezionistiche come è stato annunciato), renderà molto più ardua l’applicazione delle misure previste da Draghi per rendere più competitiva l’Europa rispetto agli Stati Uniti, e potrà essere una seria aggravante della situazione attuale. Potremmo quindi avere, un ulteriore prossimo peggioramento delle performance economiche europee e, certamente ne risentirebbe in modo amplificato il nostro Paese, a partire per esempio dal Made in Italy.

Esportare prodotti e competenze in Africa

A fronte di queste riflessioni ci si può chiedere: era necessario un liceo del made in Italy o un sistema di istituti tecnici per il Made in Italy? Sull’argomento ne ho già scritto anche nel mio libro. I fatti recenti confermano ancor di più la necessità di indirizzare la parte prevalente del Made in Italy, che è il machinery della meccanica strumentale, verso l’esportazione in quei Paesi ad alta crescita demografica, che non possono che essere quelli dell’Africa. Qui, infatti, i Paesi, per la crescita demografica e dei consumi, hanno la necessità di accelerare l’industrializzazione: le aziende italiane medium tech, potrebbero essere fornitrici dei macchinari industriali per le produzioni locali dei settori del Food & Beverage, Pharma, Energy, Light manufacturing, ed altri ancora.

La cultura tecnico-economica e le competenze conseguenti necessarie a penetrare questi nuovi mercati – che a questo punto potrebbero essere vitali per la nostra economia – dovrebbero essere acquisite in un sistema di istituti tecnici del Made in Italy con un doppio indirizzo: quello tecnico, necessario per progettare e costruire il portfolio dei giusti prodotti da esportare, e quello economico per apprendere tutti quei saperi necessari a operare in ambienti multiculturali e interculturali, dove i modelli di business non sono più quelli tradizionali del B2B, ma si allargano a quelli più complessi del B2G (Business-to-Government) o B2B2G (Business-to-Business-to-Government).

In un’ottica europea e con una visione ampia, sarebbe ancor più interessante operare in questi nuovi mercati di esportazione con professioni tecniche provenienti da nuovi Technical institute for Made in Europe. In tal caso, in aggiunta a una grande visione comune, servirebbe una forte politica di cooperazione internazionale allo sviluppo (ingredienti di cui siamo carenti). In ogni caso, una buona istruzione tecnica, ben indirizzata, sarebbe già una importante leva per allievare le possibili impasse che ci potrebbe presentare il prossimo futuro.

La scuola per la spendibilità occupazionale

Per chi si deve occupare di orientamento, ben oltre gli stretti confini domestici territoriali, non è facile fare un identikit dello stato dell’economia del Paese. Anche perché potrebbe modificarsi in breve tempo e quindi non sarebbe molto attendibile sui tempi lunghi delle scelte scolastiche. Allora è più ragionevole analizzare e riflettere sulle trasformazioni economiche e aziendali che potrebbero accadere. E in tal caso cosa potrebbe fare la scuola?

La scuola dovrebbe guardare all’economia con due prospettive. La prima finalizzata a misure urgenti che devono soddisfare i bisogni del momento: servirebbe per questo una politica formativa regionale e nazionale di pronto intervento, utilizzando, ottimizzando, uniformando su tutto il territorio tutti gli strumenti nazionali ed europei a supporto della formazione. Ma questi interventi non appartengono alla fattispecie delle riforme scolastiche.

Poi serve in aggiunta una solida politica di “Education4Employability”, rivolta alla piena valorizzazione delle risorse umane, che attraverso una istruzione tecnica di alta eccellenza, punti a istruire e formare delle persone con un’alta spendibilità occupazionale, indipendentemente da chi saranno le aziende e i settori disposti all’assunzione. Va però osservato che questi aspetti non rientrano nelle competenze delle imprese, bensì riguardano la complessiva politica del lavoro e del welfare di cui si devono occupare le istituzioni pubbliche. Servono dunque gli Stati generali e un Ministero dedicato.

Siamo, come spesso ho scritto, nel bel mezzo di un problema complesso e multifattoriale, che non si risolve guardando solo i nostri ristretti confini domestici, anche laddove ci fossero delle buone pratiche che certamente devono essere estese. Se in Europa si guarda al recupero della competitività attraverso la visione lunga e profonda del rapporto Draghi, l’Italia dovrebbe guardare alla ‘ricostruzione dell’istruzione tecnica’ con il coinvolgimento di tutta la società, attivando gli Stati generali.

Serve però un’estensione delle competenze attuali per occuparsene, che dovrebbero e potrebbero stare nelle attribuzioni di un nuovo Ministero appositamente dedicato. I fatti recenti e le non prevedibili evoluzioni ne sollecitano la richiesta.

formazione, scuola, Formazione tecnica


Valerio Ricciardelli

Valerio Ricciardelli

Perito elettronico e laureato in Ingegneria Elettronica al Politecnico di Milano, è Maestro del Lavoro. Le prime esperienze lavorative sono nel campo dei sistemi di controllo. Nello stesso periodo, per nove anni, è anche docente di elettronica industriale presso un importante istituto tecnico serale. Contemporaneamente inizia la sua attività presso una società di un gruppo tedesco, leader mondiale nella componentistica per l’automazione industriale nonché partner del governo della Germania per la costruzione del modello duale della formazione professionale. Successivamente diventa Direttore Generale e Amministratore Delegato di una nuova società del gruppo che si occupa di consulenza strategica e operativa nelle aziende industriali a cui appartiene una scuola di Industrial Management e una divisione per i sistemi di apprendimento. È stato pioniere delle prime iniziative di formazione applicata superiore nazionali e transnazionali. Ha intrattenuto rapporti con molti istituti tecnici e istituzioni pubbliche ed è stato promotore e attore di iniziative riguardanti l’evoluzione delle professioni tecniche. Ha terminato la sua attività professionale nella posizione di Vice President del gruppo internazionale, per il settore della Global Education, occupandosi dell’interconnessione tra economia e mercato del lavoro per la progettazione e realizzazione di sistemi TVET per governi di Paesi in via di sviluppo.

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