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Se i vertici non ascoltano la base, i rischi del welfare paternalistico

La letteratura manageriale in materia di welfare aziendale e di Smart working è ormai sconfinata. E la gran parte di quella stessa letteratura innalza inni e lodi alle esperienze di rimodulazione della prestazione lavorativa ispirate alla flessibilità organizzativa e all’autogoverno del tempo professionale.

Tuttavia sono ancora troppo rari gli studi scientifici sul campo che misurano gli effettivi risultati conseguiti in termini di miglioramento delle proprie performance competitive da parte delle imprese che hanno intrapreso serie e ampie sperimentazioni di innovazione della ‘forma lavoro’ lungo tali traiettorie. Si ascoltano, infatti, resoconti celebrativi non sempre credibili e che paiono più ispirati dall’esigenza di costruire una narrazione a trazione reputazionale che non dalla volontà di una testimonianza sino in fondo sincera e scabra.

La prudenza sembra vieppiù necessaria da quando, nel 2016, con un’operazione normativa che ha forse travalicato le sue stesse intenzioni, si sono attribuiti alle misure di welfare aziendale benefici contributivi e fiscali davvero imponenti, generando il dilagare alluvionale di laboratori aziendali in cui improvvisati alchimisti sociali miscelano metalli della più varia provenienza e spesso della più ardua compatibilità alla ricerca dell’elisir dell’eterna produttività, salvo accontentarsi –mal che vada– di un robusto incentivo sul costo del lavoro.

In verità, interventi dedicati al benessere dei collaboratori, soprattutto se orientati alla realizzazione di un’autentica prospettiva comunitaria d’impresa, producono certamente effetti virtuosi sulla prestazione complessiva dell’organizzazione, incrementando il senso di appartenenza, che è il motore di una partecipazione responsabile e attiva alla missione aziendale, migliorando l’efficienza, valorizzando gli elementi creativi e propulsivi dei sistemi di competenza e favorendo l’integrazione delle culture operative presenti sul territorio di riferimento.

Ma è indispensabile che gli interventi prescelti scelti siano coerenti, limpidamente e dunque percepibilmente coerenti con la strategia generale d’impresa, con la sua narrazione pubblica e con la proposizione commerciale dei suoi prodotti o dei suoi servizi, e con la configurazione della sua identità sociale (e persino antropologica).

Soltanto in questo modo, e poi attraverso monitoraggi costanti e penetranti degli andamenti e degli esiti concreti delle misure adottate, si può acquisire la garanzia di evitare azioni inutilmente costose o addirittura distorsive, di non creare torsioni organizzative e di migliorare il clima aziendale e la vocazione cooperativa dei lavoratori.

La deriva paternalistica del welfare

Ci vogliamo in particolare soffermare sul rischio, già da molti opportunamente denunciato, che il welfare divenga la modalità –sebbene allineata allo ‘spirito del tempo’– con cui si ripresenta un vizio antico della cultura imprenditoriale italiana: il paternalismo.

Quel paternalismo, che ha pure segnato tra l’Ottocento e il Novecento alcune delle più originali avventure aziendali italiane (Lanerossi, Marzotto, Crespi, ecc.), ma che ora celerebbe soltanto il rifiuto di migrare dalla tradizionale cultura proprietaria, così radicata nella media e piccola manifattura, a quella cultura istituzionale dell’impresa che oggi è, non solo costituzionalmente evocata, ma persino normativamente ratificata e ribadita (si pensi soprattutto al D.lgs 231/2001 o al D.lgs 254/2016) da tutto l’apparato ispirato ai principi della responsabilità e della sostenibilità sociale.

Il paternalismo tende a generare applicazioni del welfare costruite come ‘graziose concessioni’, né contrattate né realmente condivise, e dunque animate dalla volontà datoriale di apparire compassionate, attente e generose, aperte e sollecite.

Non a caso, nell’esperienza italiana, il welfare aziendale è stato spessissimo orientato a soddisfare ‘bisogni’ primari (il “carrello della spesa”, la sanità integrativa, le spese scolastiche, le spese di trasporto, i nidi aziendali, ecc.), trascurando, pur in un contesto di fortissima discontinuità tecnologica e dei modelli di business, il tema delle competenze e del merito e quello dell’evoluzione della compensation verso più sofisticati meccanismi di gain-sharing e dunque quasi soggiacendo alla tentazione di una ritrovata stagione dell’appiattimento retributivo.

Leggendo gli accordi aziendali stipulati per la conversione a welfare dei premi di risultato, presupposto necessario per la massimizzazione dei benefici contributivi, si può tracciare agevolmente la mappa di questo paternalismo regressivo, presente soprattutto nelle aziende di taglia media o medio-piccola, a controllo familiare, poco managerializzate e poco sindacalizzate.

L’articolo integrale è pubblicato sul numero di giugno 2019 di Persone&Conoscenze.
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