Smart working, non chiamatela rivoluzione
La stampa generalista l’ha presentato come la “rivoluzione” dello Smart working. A ben vedere, però, il nuovo accordo per il settore privato sul lavoro agile non ha introdotto novità così dirompenti e anche gli addetti ai lavori confermano che l’intesa firmata dal Ministero del Lavoro con le parti sociali e le associazioni di rappresentanza delle imprese, per la verità, riprende alcuni principi anticipati dalla Legge 81/2017 che, come noto, da anni regolamenta il lavoro agile in Italia.
L’accordo, siglato il 7 dicembre 2021 dal titolo Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile, prevede che lo Smart working possa essere attivato, su base volontaria, anche dopo la fine dell’emergenza sanitaria, attraverso un patto tra il datore di lavoro e il dipendente e definisce chiaramente il diritto alla disconnessione, alla sicurezza e all’equo trattamento (anche a livello di retribuzione) rispetto al lavoro in presenza. Inoltre l’intesa, tra gli aspetti più rilevanti, prevede che il datore di lavoro fornisca la strumentazione tecnologica idonea allo svolgimento della prestazione lavorativa e che siano preservati i dati privati del lavoratore e dell’azienda.
Fin qui poche differenze tra il nuovo accordo e la Legge 81/2017, che già definiva lo Smart working come una particolare prestazione di lavoro flessibile subordinata che si svolge al di fuori dei locali aziendali, richiedendo però l’uso di strumenti tecnologici, l’esecuzione della mansione all’interno degli orari di lavoro giornalieri e settimanali (per rispettare i tempi di riposo e di disconnessione del lavoratore) ed equi diritti e retribuzioni rispetto al lavoro in presenza. Tra gli esperti della materia, Giuseppe Geneletti, Responsabile della Smart Working Solution di Methodos Group (società di consulenza manageriale), conferma che l’accordo è “una sintesi utile per far felici tutte le parti sociali che l’hanno siglato” piuttosto che una “rivoluzione”, come è stato scritto.
Un (buon) approfondimento della Legge 81/2027
Esperto di new way of working, con 20 anni di esperienza nella gestione aziendale internazionale e 10 anni nella consulenza, Geneletti riconosce senz’altro all’accordo tanti aspetti positivi: per esempio l’attenzione verso la privacy dei dipendenti (tema caro ai sindacati) e la volontà di proteggere i dati sensibili delle aziende durante il lavoro da remoto (nel mondo, secondo il Rapporto Clusit solo nel 2020 gli attacchi informatici sono aumentati del 12% rispetto al 2019). Inoltre, per il consulente la recente intesa sul lavoro agile ha l’obiettivo di chiarire un aspetto importante: “Se gestito con serietà, concentrazione e organizzazione meticolosa degli obiettivi a breve e a lungo termine, lo Smart working non è meno produttivo del lavoro in presenza”.
C’è poi un’altra questione fondamentale su cui l’intesa pare indicare una direzione fondamentale, che Geneletti riassume così: “Un accordo di questo tipo aiuta a guardare avanti e a non tornare all’organizzazione del lavoro precedente alla pandemia, richiedendo però un cambio di paradigma rispetto al rapporto tra capi e dipendenti, che deve necessariamente basarsi sulla fiducia per poter mettere in atto la modalità di lavoro agile”.
Da evidenziare anche un passo avanti fatto dall’accordo del 2021, già solo a livello di chiarezza, rispetto alla Legge 81/2017: in quest’ultima norma, infatti, c’era un po’ di confusione tra le definizioni di lavoro agile e di telelavoro, mentre la nuova intesa sgombera il campo da possibili fraintendimenti, chiarendo come la seconda modalità preveda una postazione fissa e orari decisamente più rigidi e definiti rispetto a quelli flessibili dello Smart working.
Serviva maggiore attenzione a sostenibilità e inclusività
Nonostante tutti questi aspetti positivi del nuovo accordo, però, il consulente di Methodos resta perplesso: “Per fare una vera rivoluzione, l’intesa avrebbe dovuto essere un protocollo contenente aspetti davvero innovativi, rispetto all’estensione del lavoro agile a tutte le categorie di lavoratori in ogni settore e alla regolamentazione della retribuzione in base al luogo in cui si decide di vivere e di esercitare il lavoro a distanza”. In effetti, si sarebbe potuto parlare di rivoluzione se, per esempio, si fossero considerati operai e altri lavoratori per immaginarsi anche per loro un lavoro agile e flessibile. “Il protocollo è dunque più un approfondimento della legge già esistente”, conferma il consulente.
Ma che cosa avrebbe dovuto contenere l’accordo per essere davvero rivoluzionario e andare ben oltre la Legge che già regolamenta lo Smart working? “Serviva un focus importante sulla sostenibilità ambientale della mobilità (invece c’è solo qualche riga) e, ancor di più, una riflessione sulle modalità di formazione dei giovani lavoratori che iniziano a lavorare da remoto, dato che partono da una formazione scolastica meramente teorica e il lavoro deve essere imparato sul campo e non possono permettersi di essere lenti”. Anche un focus sulla tecnologia avrebbe giovato, perché sono i nuovi strumenti che possono contribuire alla ‘vera’ rivoluzione: “Si tratta di essere inclusivi e di dare molte più occasioni di lavoro grazie alle collaborazioni a distanza, ma in questo caso subentra il discorso rispetto ai lavoratori precari e freelance, che non sono contemplati in questo accordo, ma esistono e sono tanti”.
Forse per fare una rivoluzione in questi termini i tempi non sono ancora maturi e la cultura del lavoro è ancora troppo radicata rispetto alle dinamiche tradizionali e rigide. E su questo Geneletti: “Un corpo istituzionale che tocca il tema del lavoro, così vicino alle persone, certi temi deve se non risolverli, almeno sollevarli; altrimenti non si può parlare affatto di rivoluzioni”. Insomma, di certo non sarà una rivoluzione, ma un piccolo passo avanti per gestire una modalità di lavoro – lo Smart working – che è destinata a diventare sempre di più la normalità.
Smart working, Methodos, Legge 81/27, Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile