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Smart working, perché non si può più tornare indietro

Se prima era considerato un benefit, adesso è diventato un requisito determinante nell’attrattiva dei talenti.

Fino a qualche mese fa, i consigli per scrivere un buon curriculum tenevano conto delle richieste, da parte delle aziende, di alcune competenze trasversali, come la predisposizione al lavoro in team e l’ormai famoso problem solving. In pratica, non c’era cv – o lettera di presentazione – che non includesse queste caratteristiche.

Adesso, la conoscenza delle norme di sicurezza anti covid, la capacità di lavorare in autonomia, di automotivarsi e di organizzare il proprio tempo, l’approccio open minded alla tecnologia e alla formazione continua sulle nuove tecnologie.

Per contro, fino a poco tempo fa, durante il primo colloquio conoscitivo, le domande classiche del candidato spaziavano dall’entità della retribuzione, alla quantità di trasferte e via dicendo. Ebbene, ora, secondo l’esperienza di Westhouse Italia –agenzia di ricerca e selezione del personale specializzata in ambito IT, Engineering, Middle e Top management, parte del Gruppo tedesco Westhouse Gmbh– se non la prima, la seconda domanda del candidato è: “Quanti giorni di Smart working sono previsti”? Forse è presto per dire se tale quesito prenderà a pieno titolo il posto delle domande su ferie o benefit di welfare aziendale, tuttavia è una domanda che in Italia, fino a febbraio 2020, era senz’altro meno consueta.

Il lavoro agile come antidoto alla crisi del mercato del lavoro

L’evento straordinario che abbiamo vissuto con la pandemia da covid-19 ha definitivamente cambiato da un lato le esigenze e le aspettative di chi cerca e di chi offre lavoro, dall’altro le competenze e le soft skill che è necessario sviluppare. Westhouse Italia nasce per mettere in contatto i talenti, soprattutto del settore ICT ed Engineering, con le aziende.

“Non ci limitiamo a cercare ‘il curriculum adatto’, ma la persona migliore per ogni ruolo”, osserva Lorella Pedinotti, Partner e CFO dell’azienda, che riconosce come la specializzazione in un settore all’avanguardia come l’ICT abbia concesso ai clienti di Westhouse di risentire meno pesantemente della crisi. Anzi, il settore tecnico-informatico è stato uno di quelli, insieme con il Socio-sanitario, la Grande distribuzione e la Logistica, che ha lavorato di più.

In Italia si è cercato, infatti, di porre rimedio, in poco tempo e in situazione di emergenza, all’arretratezza nei confronti dell’utilizzo delle tecnologie per il lavoro (e lo studio) da remoto. Infatti, già nel 2011 in Finlandia ben il 92% delle aziende permetteva lo Smart working ai propri dipendenti. Nel 2018, il dato dell’Italia era fermo al 2% (Demokratos, 2020). Un divario che, ovviamente, non è possibile colmare con la fretta dovuta all’emergenza, ma che senz’altro ha subito una forte accelerazione a seguito di essa.

È ancora presto per dire se si proseguirà la corsa verso la digitalizzazione e il lavoro da remoto allo stesso ritmo: di certo c’è stato un cambiamento importante di mentalità. Per lo meno, ora sappiamo che è possibile lavorare (e studiare) anche da casa. Secondo i dati a disposizione di Westhouse Italia, confermati da InfoJobs, negli ultimi tre mesi del 2020 il 72% delle aziende italiane ha messo a disposizione, in tempi brevi, mezzi e strumenti per permettere ai collaboratori di proseguire il lavoro da remoto. Il 56% delle aziende che hanno attivato lo Smart working ha dichiarato di applicarlo per la prima volta. Ora, il 71 % dei dipendenti vorrebbe continuare il lavoro agile, uno o due giorni a settimana. I segnali ci sono, ma occorre dare tempo al cambiamento per assestarsi.

L’ora del cambio di mentalità

L’emergenza sanitaria, dicevamo, ha accelerato un importante cambiamento di mentalità nel mondo del lavoro. Se, prima, il lavoro da remoto o la flessibilità oraria erano considerati benefit e aspetti più o meno rilevanti del welfare aziendale, adesso, in pochi mesi, sono diventati requisiti determinanti nell’attrattiva dei talenti e nella retention aziendale.

Secondo Westhouse arriveremo, nei prossimi mesi, a un equilibrio più stabile: è vero che in Europa molti Paesi erano più avanti di noi, ma di fatto l’emergenza ci ha portati a colmare un importante gap culturale e tecnologico in poco tempo, come solo le grandi rivoluzioni permettono di fare. In contemporanea, abbiamo compreso come la vicinanza fisica non sia da considerare superflua e superata: le relazioni, il gioco di squadra sono fondamentali nelle dinamiche professionali.

Sicuramente ci saranno da colmare anche aspetti normativi e fiscali: la Legge 81 del 2017, relativa al lavoro agile e derogata durante l’emergenza, è ancora da migliorare. All’opposto, si prevede una maggiore diffusione dei cosiddetti “nomadi digitali”, quelli che, zaino (e computer) in spalla potranno lavorare girando il mondo, da qualunque luogo si trovino: anche per loro il legislatore, in materia giuslavoristica e fiscale, dovrà fare uno sforzo di innovazione. Le aziende, come sempre, ci sono arrivate prima, ma occorre, nell’interesse di tutti, regolamentare i cambiamenti cui siamo stati sottoposti.

La formazione professionale e aziendale si orienta al prodotto finale

Westhouse Italia comincia a consigliare alle aziende di esplicitare, nella job description volta alla ricerca del personale, la disponibilità di lavoro da remoto. Allo stesso tempo, cambia anche la tipologia di formazione erogata. Se l’ambito del rafforzamento ed approfondimento delle competenze tecniche resta il più gettonato, tuttavia diverse aziende hanno modificato gli interessi formativi rivolti ai propri dipendenti, spaziando maggiormente nell’ambito delle soft skills.

Il time management e la cultura del workplace change sono diventate le richieste più espresse, per i profili junior. Le aziende, inoltre, hanno immediatamente colto come sia diventato indispensabile modificare per i profili più senior l’approccio manageriale tradizionale, in Italia molto abituato al ‘controllo fisico’ di spazi e relazioni, in favore di un nuovo approccio più goal oriented e più attento al prodotto finale.

Le distanze fisiche hanno senz’altro appiattito le gerarchie e modificato la comunicazione”, osserva Pedinotti: dunque, tutte le competenze di leadership consolidate sinora devono inevitabilmente affrontare un cambiamento. Né dal punto di vista tecnico, né da quello personale, queste competenze si apprendono sui banchi di scuola. Ecco perché, per restare al passo, le aziende dovranno sempre di più investire nella formazione continua.

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Chiara Pazzaglia

Bolognese, giornalista dal 2012, Chiara Pazzaglia ha sempre fatto della scrittura un mestiere. Laureata in Filosofia con il massimo dei voti all’Alma Mater Studiorum – Università degli Studi di Bologna, Baccelliera presso l’Università San Tommaso D’Aquino di Roma, ha all’attivo numerosi master e corsi di specializzazione, tra cui quello in Fundraising conseguito a Forlì e quello in Leadership femminile al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum. Corrispondente per Bologna del quotidiano Avvenire, ricopre il ruolo di addetta stampa presso le Acli provinciali di Bologna, ente di Terzo Settore in cui riveste anche incarichi associativi. Ha pubblicato due libri per la casa editrice Franco Angeli, sul tema delle migrazioni e della sociologia del lavoro. Collabora con diverse testate nazionali, per cui si occupa specialmente di economia, di welfare, di lavoro e di politica.

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