Sono malato? Lavoro in Smart working
Prima della pandemia spesso lavoratori e lavoratrici si presentavano in ufficio anche quando non stavano bene. Oggi chi è malato, invece di tossire accanto ai colleghi, finisce per lavorare da remoto. Ma questo cambiamento solleva un nuovo dilemma: quanto si deve essere malati per prendersi una giornata di malattia vera e propria?
Prima, la scelta era binaria per la maggior parte delle persone: andare a lavorare in sede imbottiti di medicine oppure rimanere a casa e per quel giorno abbandonare le attività lavorative. Ora non è così semplice, perché con la grande diffusione del lavoro agile, una giornata di malattia, per chi ha la possibilità di svolgere anche solo in parte il proprio lavoro fuori dalle mura aziendali, può sembrare una giornata qualsiasi e non un momento per prendersi una pausa, riposare e dare al proprio corpo l’opportunità di recuperare. La sensazione è insomma, ha fatto notare la Bbc, che il limite perché un giorno di malattia sia vissuto come tale si è alzato.
Dal punto di vista di Ann Frost, Professoressa Associata di Comportamento Organizzativo presso la canadese Ivey Business School, il problema potrebbe diffondersi ulteriormente con il consolidarsi delle modalità lavorative ibride e da remoto. Già ora i sondaggi citati dall’emittente britannica suggeriscono che negli Stati Uniti due terzi dei lavoratori ritengono che il lavoro a distanza faccia sentire maggiormente sotto pressione durante la malattia, mentre altri dati mostrano che la stessa percentuale di persone si sente obbligata a lavorare anche quando non sta bene.
Dall’altra parte dell’Oceano, nel Regno Unito, le assenze per malattia hanno raggiunto minimi record nel 2020 proprio perché le persone lavoravano da casa. Prima che diventi una pratica radicata, secondo gli esperti consultati dalla Bbc, le aziende e i lavoratori dovrebbero fermarsi a pensare a questo cambiamento e alle sue implicazioni su produttività, cultura aziendale e benessere dei lavoratori.
L’effetto a catena della cattiva cultura
In molti casi il problema è la mancanza di chiarezza sulla malattia tra datori di lavoro e dipendenti. È il punto di vista di Greg Couser, Medico del Lavoro presso la Mayo Clinic del Minnesota: a suo giudizio le aspettative sul posto di lavoro sono cambiate senza che le norme che regolano la malattia siano state in alcun modo aggiornate. Per alcune persone il cambiamento può essere considerato positivo: una lieve malattia permetterebbe di prendersi maggiormente cura di se stessi rimanendo presso la propria abitazione e allo stesso tempo di portare a termine il lavoro necessario.
Tuttavia, ci sono molteplici ragioni per cui potrebbe essere molto meglio concedersi invece una pausa adeguata. I dati proposti dalla Bbc mostrano infatti che lavorare in condizioni di malattia conduce a prestazioni lavorative peggiori, suggerendo inoltre un legame tra la rinuncia ai giorni di malattia e l’aumento del rischio di depressione. Un altro studio ha poi mostrato che lavorare da casa quando non si sta bene fa sentire i lavoratori ancora più in colpa rispetto allo stop completo dovuto a indisposizione.
Ma il punto cruciale, per Couser, è che le persone che continuano a lavorare quando non stanno bene si pongono nella condizione di non migliorare, di ammalarsi nuovamente e di stressarsi di più. “Possono esserci conseguenze che nemmeno conosciamo. È nell’interesse delle aziende incoraggiare i collaboratori a prendersi i giorni di malattia, perché, sebbene possa esserci un aumento di produttività a breve termine, rinunciarvi potrebbe portare a una perdita a lungo termine”, ha spiegato il medico. A discapito di quella che può essere l’eventuale preferenza del datore di lavoro: “Se ti dicono che puoi lavorare da casa anche se hai la tosse o la febbre questo è un male, è cattiva cultura”. Anche perché ciò che è debilitante per uno può essere gestibile per qualcun altro e vedere i colleghi che lavorano mentre sono malati potrebbe spingere gli altri a fare lo stesso. Ecco perché i lavoratori hanno bisogno di una cultura positiva che tuteli il loro diritto di ammalarsi, anche e soprattutto quando lavorano in modalità ibrida o da remoto.
Laureata in Filosofia, Erica Manniello è giornalista professionista dal 2016, dopo aver svolto il praticantato giornalistico presso la Scuola superiore di Giornalismo “Massimo Baldini” all’Università Luiss Guido Carli. Ha lavorato come Responsabile Comunicazione e come giornalista freelance collaborando con testate come Internazionale, Redattore Sociale, Rockol, Grazia e Rolling Stone Italia, alternando l’interesse per la musica a quello per il sociale. Le fanno battere il cuore i lunghi viaggi in macchina, i concerti sotto palco, i quartieri dimenticati e la pizza con il gorgonzola.
Smart working, benessere, malattia