Tavares, troppa finanza e poca visione
Per analizzare la questione Carlos Tavares – l’ex CEO di Stellantis che il 1 dicembre 2024 ha dato le dimissioni, con un assegno da 100 milioni di euro, che ha scatenato molte polemiche – è utile partire da lontano. E usare una metafora. La situazione economica dell’industria europea potrebbe essere assimilata a una parte di montagna che sta franando lentamente: all’interno della zona franosa ci sono aree boschive di diverse tipologie di alberi; una di queste – che finora era stata meno toccata dal movimento generale – adesso sta invece degradando più velocemente e al suo interno stanno rischiando di cadere, trascinati dalla frana, numerosi alberi, in particolare ce n’è uno che, mal posizionato, sta subendo i maggiori danni. La parte di montagna che sta franando è la manifattura europea, nella quale le diverse aree boschive sono i diversi settori industriali; il bosco che sta subendo i maggiori danni è l’Automotive e l’albero maggiormente a rischio è Stellantis. E la domanda che tutti si fanno è: sopravviverà l’azienda nata dalla fusione tra Fca e il Gruppo Psa?
Occorre considerare che ciò che sta vivendo ora l’industria dell’auto è quanto è avvenuto – più o meno e in tempi diversi – nella maggior parte dei settori industriali occidentali, in particolare europei. Molto facile ricordarsi, infatti, quanto è successo nei decenni scorsi all’Elettronica di consumo (avevamo aziende leader mondiali), agli Elettrodomestici (i leader mondiali erano in Italia), alla Telefonia (Nokia è stata per anni leader insieme con Ericsson), ai Personal computer (i leader erano aziende americane e ora sono cinesi), ai Microprocessori (ora in mano quasi completamente a Taiwan)..
In tutti questi settori, la leadership tecnologica e i volumi produttivi sono passati dall’Occidente ai Paesi asiatici in modo molto simile: dapprima in Giappone, poi in Corea del Sud e Taiwan e ora in Cina, che sta già delocalizzando le sue produzioni in Paesi quali Vietnam e Indonesia. Non è estranea anche l’India, specialmente nel Farmaceutico e nell’Informatica. Trend simili si sono verificati anche negli Stati Uniti, dove essi sono però rimasti più presenti nell’innovazione di vari settori, dando corpo alla nota immagine secondo la quale: “Gli Usa innovano, la Cina sviluppa i business in larga scala e l’Europa tenta di regolarli”. In realtà si può aggiungere che l’Europa non fa più innovazione e non riesce neanche a fare da arbitro di tali business; al massimo può fare da ‘guardalinee’ per i business che si svolgono nel Vecchio Continente, sapendo che i grandi volumi si fanno in altre aree del mondo.
L’Italia ha perso da tempo il ruolo di baricentro dell’auto
Tornando al business dell’Automotive, c’è da rilevare che finora era rimasto sufficientemente florido in Europa grazie ai prodotti di gamma alta della Germania e ad alcune nicchie premium (anche in Italia): i grandi produttori cinesi e indiani rimanevano più concentrati sui grandi volumi di auto a basso prezzo, perché più adeguati ai loro grandi mercati. La Corea del Sud invece si è subito rivolta ai mercati americani ed europei guadagnando buone quote di mercato e anche sviluppando le sue tecnologie in modo competitivo. Il tutto con già una presenza consolidata da parte delle aziende giapponesi, Toyota in testa. Inevitabile comunque le partnership con tali produttori e la cessione di alcune aziende storiche a indiani e cinesi (Jaguar-Land Rover, Volvo…).
Le aziende europee, localizzate nelle principali economie, hanno comunque cercato di reagire alla sfida dei Paesi asiatici, facilitati da minori costi della manodopera grazie alla delocalizzazione in Romania, Polonia, Ungheria e anche Serbia. Il problema della sostenibilità degli stabilimenti in Germania, Francia e Italia ha avuto i suoi effetti già nei due decenni scorsi, con significative riduzioni continue dei volumi delle nostre fabbriche (e quindi dei dipendenti). Non era infatti a lungo sostenibile la competizione con le fabbriche, per esempio, polacche e serbe, dove il costo orario della manodopera è un terzo del nostro (10 euro all’ora contro i nostri 32 euro).
Tale trend ha intaccato anche la filiera dei fornitori dei componenti, con spostamento anche delle loro produzioni altrove. Le fusioni di grandi aziende del settore – appunto il raggruppamento produttivo Fiat, Chrysler, Psa e Opel – ha inoltre fatto concentrare tutte le funzioni aziendali in poche location, depauperando alcuni Paesi come l’Italia, dove, di fatto, sono rimaste solo le fabbriche. Questo fatto dovrebbe subito far capire che, se si tratta solo di stabilimenti, allora è conveniente spostarli nei Paesi a minor costo del lavoro… Durante il processo di fusione e integrazione di più aziende ‘pre-esistenti’, le Direzioni si sono accentrate, come pure le tutte le funzioni aziendali importanti: poiché Stellantis ha deciso di portare i suoi headquarter in Francia, l’Italia ha perso la sua centralità e importanza… Meno pesanti, invece, sono state le conseguenze dove le fabbriche sono ancora presso le Direzioni aziendali, costituendone un continuum di catena del valore: è il caso proprio della Francia con Stellantis).
Una visione incentrata solo sulla finanza
Il risultato è stato che il baricentro di Stellantis non è più l’Italia e le fabbriche rimaste devono competere con le altre nel mondo. Questo processo è stato facilitato dalla gestione Elkann, che pare non essersi troppo preoccupato dell’importanza del nostro Paese né che l’azienda è stata aiutata abbondantemente in momenti difficili dallo Stato italiano: tuttavia, il 17 dicembre 2024 presso il Ministero delle Imprese e del Made in Italy, John Elkann ha incaricato Jean-Philippe Imparato, Responsabile Europa di Stellantis, di partecipare a un incontro, rispondendo all’appello del Ministro Adolfo Urso, tornato di recente sul Fondo Automotive, l’iniziativa dell’Esecutivo per sostenere la transizione ecologica e l’innovazione nel settore automobilistico.
Elkann è stato spesso accusato di avere perseguito una strategia con puri obiettivi finanziari, scegliendo un CEO come Tavares con il chiaro compito di massimizzare i profitti e i dividendi, tanto che negli ultimi quattro anni il gruppo sembra che abbia distribuito agli azionisti circa 23 miliardi di euro, tra dividendi e riacquisti di azioni proprie (sono invece passati da 53mila a 40mila i dipendenti in Italia dalla fusione). In questo contesto di visione troppo incentrata sugli obiettivi finanziari e di breve termine, Stellantis non ha brillato per visione e strategia vincente. L’innovazione dei modelli è stata limitata e alcuni mercati ne hanno particolarmente sofferto: sicuramente è il caso dei marchi italiani e il range dei relativi modelli, limitati, di fatto, solo al mondo Fiat 500, con pochi altri modelli ancillari. Ne hanno ovviamente particolarmente sofferto le nostre fabbriche e la nostra occupazione.
In questo contesto di lenta perdita di competitività dei produttori europei e delle fabbriche dell’Europa occidentale, si è improvvisamente inserita l’accelerazione data dall’Unione europea alle auto elettriche. Si è trattato di fatto di uno tsunami che ha sconvolto le nostre catene del valore e le filiere tradizionali. Le case automobilistiche, già in difficoltà nello scenario precedente, hanno cercato di usare questo cambiamento come opportunità di rilancio. E lo hanno anche supportato politicamente: di fatto hanno cambiato completamente strategie decretando la morte dei motori endotermici. Tale velocità si è, però, dimostrata un boomerang per i volumi di business e soprattutto per l’occupazione. Il mercato e i cittadini europei non erano comunque pronti alla ‘rivoluzione’: le auto elettriche risultano troppo costose, manca una rete di infrastruttura per le ricariche e laddove queste non sono sostenute da una generazione di energia green, presentano un bilancio energetico addirittura negativo.
La concorrenza sui prezzi e lo svantaggio tecnologico
Stellantis, o meglio Tavares, è stata forse l’azienda automotive europea più determinata a fare il salto verso il green. Di fatto si è trovata un po’ in fuorigioco: i volumi delle vetture elettriche non sono partiti come previsto, e i modelli tradizionali sono rimasti indietro rispetto alla concorrenza. L’azienda ha cominciato a perdere quote in tutti i mercati, anche perché ha dovuto applicare una politica di prezzi più alti per compensare gli investimenti fatti nell’elettrico. Persino il suo brand Jeep, con sviluppi tecnologici non indovinati e politiche di prezzi troppi alti, è crollato anche negli Usa (in verità i concessionari si stanno ribellando alle politiche imposte un po’ in tutto il mondo).
In questo transitorio, Stellantis si è ritrovata, dunque, a essere l’azienda con le maggiori difficoltà. Questi due fatti – il non capire il reale potenziale dell’elettrico a breve termine e l’adozione di politiche di brand e di prezzi sbagliati – fanno parte delle maggiori critiche che si fanno alla gestione Tavares, accusato da alcuni di aver perso il senso della realtà. I fornitori ‘strozzati’ dai bassi prezzi di fornitura imposti dalla concorrenza dei Paesi dell’Est Europa, la concorrenza delle aziende cinesi che sono già entrate nei nostri mercati in modo indiretto (vedi brand come l’italiana DR o l’acquisto di Volvo) o addirittura in modo diretto, sono gli elementi che stanno mettendo in crisi l’Europa e in particolare l’Italia. Purtroppo le aziende cinesi, oltre a dominare la componentistica green, ricevono anche sovvenzioni all’esportazione da parte dello Stato…
È allora difficile prevedere come l’Europa potrà sostenere i volumi di produzione delle auto. In parte probabilmente l’occupazione sarà sostenuta dall’insediamento di aziende cinesi, ma non si deve dimenticare che cosa è successo in passato agli altri settori merceologici. La cosa certa è che tra le aziende europee in difficoltà, Stellantis è forse quella con i maggiori problemi e fra i Paesi con maggior perdita occupazionale c’è il nostro. E le scelte di Tavares non ci hanno particolarmente favorito…
Carlos Tavares, Automotive, Stellantis