Team(s) working
Come si inserisce il tema dell’inclusione nell’orizzonte dei nuovi modi di lavorare, con lavoratori che si connettono a distanza uno dall’altro, magari senza essersi mai incontrati di persona? Come tenere insieme persone fisicamente lontane e intrinsecamente diverse senza poter fare affidamento sulla contaminazione e sugli effetti ‘bonificatori’ della convivenza quotidiana in uno spazio condiviso?
Forse per deformità anagrafica, quando penso all’inclusione penso a una vicinanza, misurata anche in termini di spazio. Penso a persone diverse che condividono il tempo passato insieme in un ufficio, una fabbrica, un negozio. Che devono fondare un loro modo di convivere e lavorare senza essersi scelte reciprocamente, condividendo almeno inizialmente solo gli obiettivi dell’azienda di cui fanno parte.
La convivenza fisica, e soprattutto il viversi quotidianamente, presuppone uno scambio di fare e sentire condivisi, anche attraverso i cinque sensi, a creare un contrappunto continuo che definisce e ridefinisce relazioni e rapporti e influenza il modo di lavorare di ognuno. Una voce che si accende in riunione, uno sguardo che cerca di sedarla, un altro alla ricerca della porta, che vorrebbe fuggire via. Un passo rassicurante lungo il corridoio che scandisce puntuale il rituale della sigaretta, quello improvvisato e concitato di chi accoglie una consegna insolitamente in anticipo. Le persone animano lo spazio, che a sua volta diventa un organismo vivo che si rigenera continuamente e prende la forma delle relazioni che lo abitano.
La cosiddetta valorizzazione delle differenze, o meglio, la convivenza di persone diverse, ognuna portatrice di un’identità e di una visione personale e unica, è generativa di opportunità per la crescita dell’impresa se alla sua base è presente un obiettivo condiviso che lega tutti gli attori. Lo sguardo rivolto a una meta comune è l’elemento fondamentale e imprescindibile che consente di miscelare, in un composto irreplicabile e perfetto, tutti gli ingredienti di una ricetta in cui ognuno metterà a disposizione le proprie caratteristiche distintive.
“Diversi e uniti nell’obiettivo” è la formula vincente per mettere a valore il potenziale contributo di ognuno per gli scopi comuni di crescita dell’organizzazione.
E allora, se viene meno il vivere insieme nello spazio che è testimone di un impegno volontario all’essere qui, fisicamente, ora, per uno scopo comune, cosa alimenterà, soprattutto sul lungo periodo, questa vitalità, questa linfa organizzativa che non può essere tradotta in bit, clic o dati che viaggiano solerti da un ganglio all’altro della Rete? Quali vissuti e ‘sentiti’ condivisi lubrificheranno le relazioni di un gruppo di lavoro?
Possiamo davvero ottenere attraverso degli schermi le stesse performance in termini di coinvolgimento emotivo o della tanto invocata motivazione? O forse abbiamo deciso che possiamo fare a meno di questo corredo emotivo che il lavoro porta con sé come azione sociale?
In un’equazione sillogistica molto rudimentale, se all’uomo togliamo l’emozione otterremo qualcosa di molto simile a una macchina: un operatore che fa, senza sentire. È qui che ci interessa arrivare? Da dove attingeremo quell’energia creativa che alimenta da sempre la scintilla delle idee e che innegabilmente deve moltissimo al nostro essere animali sociali?
Ciò che è mediato è per sua natura attutito, svuotato di immediatezza emotiva, di quell’elemento di animazione psicosociale che abbiamo da sempre dato per scontato e la cui carenza oggi, in epoca di distanziamenti forzati, ci fa sentire soli e lontani dal cuore delle cose anche mentre siamo collegati in una riunione su Teams con tutto il nostro gruppo di lavoro.
Come vogliamo immaginarci il primo giorno di lavoro dei nostri figli? Una stretta di mano cederà il passo al bip che segnala l’ingresso in uno spazio virtuale a cui tutti sono connessi, ma in cui nessuno è davvero vicino a qualcuno?
Il contraltare del trend che vuole le aziende concedere lo Smart working ai propri dipendenti per tutti i giorni della settimana sono i dati delle ricerche che guardano al prossimo futuro, e ci dicono che i giovani, quelli che conoscono il lavoro solo attraverso la narrazione dei propri genitori e che devono ancora metter piede (si spera) in azienda, vogliono farlo materialmente e fanno fatica a figurarsi di imparare e formarsi senza poter osservare il lavoro nello spazio fisico in cui è nato e quotidianamente si rigenera.
Forse il lavoro in ogni luogo è solo una momentanea deriva, figlia di una società, la nostra, che di fronte all’incapacità di garantire una qualità della vita che concili profitto e benessere delle persone chiede loro di rinunciare a un pezzo di socialità per mantenere il tornaconto economico? Con l’illusione di poter essere padroni del proprio tempo.
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