Tecnologie per la servitizzazione, oltre la vendita c’è l’esperienza

Il management ci ha abituati al susseguirsi di parole chiave nel corso del tempo. Negli Anni 80 abbiamo imparato – e applicato – in massa il modello della Value chain (o Catena del valore) di Michael Porter, economista statunitense, con tutte le conseguenze che questo modello ha avuto sulle decisioni di outsourcing strategico delle aziende. Poi è stato il turno della riorganizzazione internazionale delle filiere produttive (delocalizzazione delle forniture e delle produzioni), grazie al paradigma della Global value chain del sociologo Gary Gereffi.

Nel frattempo, è venuto anche il turno dell’Open innovation dell’economista Henry Chesbrough, grazie al quale siamo diventati tutti più attenti (e qualcuno anche più aperto) all’innovazione che proviene dall’esterno dell’azienda, accompagnata dalla Experience economy (Joseph Pine e James Gilmore gli ideatori) che ci ha insegnato che anche le esperienze possono essere oggetto di vendita. Non solo: queste risultano mediamente più profittevoli dei prodotti e dei servizi. E quindi, tutti a progettare esperienze e soluzioni ‘chiavi in mano’ come somma combinata di prodotti e servizi prima venduti separatamente.

Attenzione, non sto dicendo che si tratti di mode passeggere. Tutt’altro. Si tratta di veri e propri cambi di paradigma che impattano profondamente sulle decisioni strategiche delle imprese.

Oggi è venuto il turno della Digitalization (Industria 4.0) che chiama in causa non solo i prodotti e i processi, ma rimette in discussione interi modelli di business delle aziende. Già, perché l’utilizzo di tecnologie abilitanti – sensori (Internet of Things), cloud, Intelligenza Artificiale nelle sue più svariate sfaccettature (Machine learning, voice e face recognition, ecc.) – consente alle imprese di ripensare le proprie value proposition, le modalità di interazione con i clienti e nella Supply chain, le tipologie di revenue. Insomma, in una parola: il modello di business.

Impostare nuovi modelli di business

Tutto ciò ha fatto ritornare in auge due termini ben noti, che derivano dall’esperienza di Rolls Royce dei primi Anni 601, ma sono quanto mai attuali: “servitizzazione” e “servitization strategy”. Con il primo vocabolo si intende la trasformazione del modello di offerta dell’impresa dalla produzione e vendita di un prodotto alla fornitura di un servizio complessivo che può includere anche questo.

Nel caso di Rolls Royce, invece di vendere un nuovo motore, lo si affitta a ore: nel costo di affitto è compresa (e obbligatoria) anche la manutenzione periodica; inoltre, il contratto non si conclude con la consegna del bene al cliente, ma inizia da lì, per proiettarsi nel lungo termine, legando i due soggetti per mesi, se non anni. E il cliente non può più sfuggire. In termini manageriali è locked-in.

È un modello che sperimentiamo tutti i giorni: la gestione delle fotocopiatrici in ufficio, il nostro smartphone acquistato a rate assieme a un piano voce e dati, le capsule di ricarica della nostra macchina per caffè espresso che arrivano automaticamente a casa ogni mese, ecc.

Perché la servitizzazione è tornata in auge grazie alla digitalizzazione? Perché il loro è un matrimonio perfetto: grazie alle tecnologie digitali, si generano nuovi servizi che a loro volta ‘bloccano’ i clienti all’interno di una piattaforma di offerta (altro termine oggi in voga) da cui non si può scappare se non si vuol correre il rischio di perdere tutti i dati generati da prodotti, macchinari e relativi investimenti (economical lock-in); oppure se non si vuole correre il rischio di dover utilizzare una tecnologia completamente diversa (technological lock-in); o ancora se non si ha la pazienza di dover ricominciare tutto da capo con un altro standard (psycological lock-in).

Il connubio tra servitizzazione e digitalizzazione

Quindi le tecnologie digitali (uovo) vengono prima e abilitano le strategie di servitizzazione (gallina). Corretto? Non del tutto. Perché una parte considerevole del nostro tessuto produttivo la servitizzazione la stava già sperimentando da tempo. Si pensi alla subfornitura plasto-meccanica: attraverso servizi di co-design (co-progettazione) svolti a favore dei clienti, attraverso la riorganizzazione della produzione secondo criteri di just-in-time e così via.

Il General Manager di una grande impresa di subfornitura dell’Automotive mi disse ancora 20 anni fa: “Fatto 100 il prezzo dei miei componenti, il costo di lavorazione del metallo è pari a 2. Purtroppo, tutto il resto non è margine. È il costo dei servizi che devo dare al mio cliente per tenermelo stretto”.

Sono proprio queste aziende che per prime stanno sperimentando il connubio tra servitizzazione e digitalizzazione. Aziende nelle quali la servitizzazione era già in corso prima che arrivassero le tecnologie digitali abilitanti. E che grazie a queste ultime stanno sperimentando nuovi modelli di business, come nel caso del Gruppo Bisaro e della sua ‘cantina intelligente’. Insomma: è nata prima la servitizzazione o la digitalizzazione? Come nel più classico dei dilemmi, probabilmente non lo sapremo mai.

Investire in tecnologia: il caso Gruppo Bisaro

Il Gruppo Bisaro opera dal 1985 nell’apportare innovazione e conoscenza negli stabilimenti enologici e birrai al fine di operare nel rispetto della naturalità del prodotto lavorato. Con l’etica dell’attenzione all’uomo diffonde l’uso di biotecnologie e di sistemi fisici, quali la microfiltrazione e il vapore, in contrapposizione all’uso della chimica, spesso individuata come unico e solutivo metodo di lavorazione.

A tal fine il Gruppo Bisaro studia i processi a membrana per la pulizia dei mosti, la brillantatura dei prodotti finiti, il controllo della sanità in cantina e la stabilità microbiologica in fase di confezionamento. Controlla microbiologicamente e monitorizza la pulizia e la sanitizzazione degli impianti di lavorazione e di riempimento di bottiglie, keg inox e oneway, bag in box e altri contenitori alternativi. Opera con il concetto di partnership al fine di creare un clima di trasparenza e collaborazione con lo staff del cliente. Sostiene il concetto di controllo preventivo di laboratorio e di gestione dei dati rilevati al fine di tenere sollecitate e attente le attività che incidono su grandezze 40 volte sotto il visibile.

Fin dall’inizio, il suo fondatore, Gianfranco Bisaro, ha dotato l’azienda G&B di sofisticati laboratori di microbiologia continuamente aggiornati, fregiando il gruppo con lo slogan Microbiology experts per trasmettere e fissare la visione e la specialità. Ciò ha portato l’agire dei propri dipendenti, collaboratori e partner verso lo studio e la divulgazione di tali concetti con la parallela commercializzazione di prodotti e la produzione d’impianti che rispettino la salute e l’ambiente.

Attento all’evoluzione della tecnologia, dagli inizi del 2000, il Gruppo Bisaro ha ampliato le competenze integrando le proprie aziende di nuovi reparti software, gestione dati, assistenza tecnica e design, proiettando di fatto il gruppo verso la servitizzazione, offrendo così servizi onnicomprensivi di macchine, prodotti, collegamenti Internet of Things, supervisione, allarmi, statistica e report.

L’articolo integrale è pubblicato sul numero di Luglio-Agosto 2020 di Sistemi&Impresa.
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digitalizzazione, servitizzazione, Gruppo Bisaro

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