Lavoro_tempo

Tempo misurato e tempo vissuto

Sant’Agostino nelle confessioni ebbe a dire: “Che cosa è dunque il tempo? Se nessuno me ne chiede, lo so bene; ma se volessi darne spiegazione a chi me ne chiede, non lo so”. A quanto pare, però, il Governo belga ritiene di saperne molto di più del filosofo rispetto a questo argomento.  Alexander de Croo, Primo Ministro del Belgio, ha annunciato di recente l’arrivo della mini-settimana lavorativa: in sostanza ogni dipendente ha sei mesi per sperimentare la condensazione delle 38 ore settimanali in soli quattro giorni anziché cinque. 

Intendiamoci, i Governi e i Parlamenti debbono legiferare su materie di interesse collettivo; e quello della dimensione del tempo di lavoro certamente lo è. Ma quali sono i reali aspetti in gioco? Si tratta di concepire un nuovo mondo in cui il lavoro non sia più così pervasivo come lo è stato nei decenni scorsi? Si tratta di rispondere alla sollecitazione – diciamo pure ‘scossa tellurica’ culturale – prodotta dalla pandemia? 

Forse tutte queste cose certo, ma ritengo che ancora di più si tratti di pensare a una nuova forma di cittadinanza, che consideri la partecipazione attiva della persona nella produzione di valore per sé, ma soprattutto, per la comunità. Se la intendiamo così notiamo subito come le regolazioni a monte risultino invece poco capaci di sintetizzare la complessità delle domande sul campo nell’attuale società, e nel nostro specifico, in quello del lavoro. Non senza appiattire in gaussiane irreali la varietà di questi bisogni. 

Cancellare retaggi obsoleti e incoerenti con l’attualità 

Quello che noto è come i Governi spesso non considerino la capacità e consapevolezza degli attori in gioco come una vera leva di trasformazione e aggiustamento naturale in queste fasi di trasformazione. Sarebbe più utile per i Legislatori costruire formule normative che puntino più a principi ritenuti irrevocabili, più che andare sulle soluzioni tecniche. Per esempio, l’intervento sulla disconnessione presente nel decreto belga va in quella direzione ed è interessante notare come si sia dovuto precisare un ‘diritto’ che la cultura della performance attuale aveva cancellato: non lavorare ed essere presenti ogni ora di ogni giorno.  

Ecco che cosa deve scardinare una norma generale e collettiva: retaggi ormai obsoleti e incoerenti con i temi oggi ritenuti socialmente cruciali, quali la sostenibilità, che la retorica della vita fatta per il lavoro negano ancora con forza. In questa direzione proviamo a leggere i fenomeni Great resignation e il movimento della Yolo economy (You only live once) non immediatamente come delle disfunzioni a cui rimediare, ma più come delle narrazioni esistenziali collettive che gridano voglia di cambiamento radicale della società. 

Lascerei dunque alle organizzazioni e alle persone di sperimentare al meglio le formule tecniche possibili e attuabili per traguardare un miglior equilibrio fra le tensioni derivate dalla necessità di produrre oggetti e servizi per un mercato sempre più vivace e pretenzioso, e le specifiche necessità individuali, familiari. Riesce meglio, a questo livello, una sintesi che non sia standardizzazione e omologazione, che finisce per soddisfare bisogni mediani spesso rappresentati da lavoratori (persone) che in larga parte nemmeno esistono più nella realtà. 

Ridisegnare forme e spazio del tempo di lavoro 

Detto questo, non parlo di disimpegno su questo fronte. Piuttosto di un’ulteriore accelerazione per costruire un mondo del lavoro che sappia parlare a questa nuova era, fatta di tecnologie abilitanti che sanno accorciare le distanze; di istanza di socialità corporea non strettamente collegata al task operativo (sì, intendo che ci si possa trovare in orario di lavoro non necessariamente per produrre qualcosa, ma magari per imparare, condividere idee, aggiornarsi); di sempre più pressante richiesta di senso ampio in cui inserire il tempo che ognuno di noi dedica al lavoro. Se spostiamo sassi, ergiamo un muro o costruiamo una cattedrale, fa molta differenza per le nostre vite: sintetizzo qui malamente la storiella dei tre spaccapietre spesso usata nella formazione manageriale. 

Per Seneca l’unica cosa che conta rispetto alla definizione di tempo riguarda in definitiva l’uso che ne facciamo, perché la cosa vergognosa è perdere tempo per negligenza. In questo senso Legislatori, aziende, persone-cittadini sono attori impegnabili nella creazione di contesti, specifici e locali, ma che tutti insieme divengono generali, in cui il tempo (ma direi anche lo spazio) sono strumenti dell’umano per costruire valore sociale sostenibile nel tempo. 

Forse degno di nota è stata l’esperienza Microsoft in Giappone con il suo programma Work-life choise 2019 summer, che ha sollecitato i 2.300 dipendenti a sperimentare liberamente diverse forme geometriche di spazio e tempo, per poi trarne metriche di produttività, ma anche di soddisfazione e di pratiche organizzative, più adatte e contestualizzate. Facendo nostra l’esortazione di Seneca all’amico Lucillo, diciamo anche noi: metti(amo) a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo se ti impadronirai del presente. Un presente co-costruito, a misura di umano, rispettoso del contesto in cui questi opera. 

tempo, Great resignation, Yolo economy


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Alessandro Donadio

Articolo a cura di

Alessandro Donadio è antropologo, umanista, filosofo dell’organizzazione e Professore a Contratto di Cross-Cultural Management Università Tor Vergata. Consulente di cambiamento organizzativo ed esperto di temi del lavoro, è attualmente membro del comitato scientifico dell’Osservatorio del lavoro Cifa-Confsal. Il suo progetto LogosLab è punto di riferimento sul tema dell’intersezione fra tecnologie e persone nei contesti organizzativi. Lecturer nelle più importanti università e business school italiane, oltre che columnist per diverse riviste di management. È autore di HRevolution (2017), Smarting Up! (2018) e #Learning organization (2021).

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