Ti regalo un contenuto: economia del dono o mossa di marketing?

Le riflessioni sulla cosiddetta “economia del dono” non sono recenti. Iniziò già Seneca, nella X Lettera a Lucilio. Poi toccò Tommaso D’Aquino nella Summa Theologiae e, ancora prima, Aristotele. Questi filosofi del passato convengono che donare non è necessariamente un’azione positiva, perché pone in una condizione di inferiorità il destinatario, che potrebbe così addirittura nutrire istinti di vendetta. Anzi, spesso il dono è un pericoloso strumento di competizione, che obbliga in qualche modo a ricambiare, facendo di più e meglio. La modernità ha però introdotto il concetto di reciprocità, che spiega come possa esserci dono senza gratuità e, viceversa, gratuità senza dono.

C’è voluta la contemporaneità, con la nascita della Scuola di Economia Civile, a insegnarci che l’economia del dono si inserisce a pieno titolo quale composizione della frattura tra Stato e mercato. I testi di Luigino Bruni L’economia, la felicità e gli altri (Città Nuova, 2004) e, dello stesso autore, insieme con Stefano Zamagni Economia civile (Il Mulino, 2004), rappresentano i capisaldi di questa scuola che ha sempre più successo e considerazione. Si tratta di qualcosa che va oltre la sfera etica dell’economia, perché riconosce che nel dono non c’è solo il valore filantropico, che offre soddisfazione a un bisogno di compiacimento nel dare, ma anche un valore offerto dalla necessità umana di trovare un senso morale alle nostre azioni.

Il dono implica una relazionalità tra chi dà e chi riceve: essa ne diviene il senso e il fine ultimo. Nelle relazioni c’è una reciprocità che va oltre la gratuità del dono e va oltre la logica del mercato (“Ti regalo qualcosa perché tu, poi, ti senta obbligato a ricambiare, a comprare qualcosa da me”). Il Covid-19 ha accelerato tanti processi, tra cui quello della cosiddetta “umanizzazione del mercato”, che è ormai una necessità sempre più sentita: una questione di sopravvivenza. Ecco perché entro il mercato – e non parallelamente a esso – vanno affacciandosi proposte di beni gratuiti: non sono semplice erogazione di servizi senza scambio di denaro, piuttosto un investimento in fiducia, relazioni, scambi, che pare essere la chiave di volta per il futuro del nostro modello economico.

Dunque, non c’è nulla di male nell’utilizzare la gratuità come strumento di marketing. Non è un caso che le nuove tendenze dell’economia del dono provengano direttamente dagli Stati Uniti: anche il simbolo del capitalismo più spinto ha compreso che non c’è futuro se non in un’apertura alla dimensione sociale. In particolare, non ci riferiamo ai servizi cosiddetti freemium, che sono un vero e proprio modello di business.

In quest’ultimo caso, infatti, non si paga il servizio in sé, ma lo spazio aggiuntivo, la personalizzazione, i servizi extra. Tutta la clientela gratuita serve semplicemente da ‘pubblico’, da ‘bacino di utenza’ per i servizi premium. Non solo: è una preziosissima fonte di dati, al servizio della profilazione e degli algoritmi. Invece, la dimensione economica del dono prevede proprio l’erogazione gratuita di servizi che, altrimenti, sarebbero a pagamento.

L’esempio ‘privilegiato’ dell’Educazione

Un campo in cui è particolarmente evidente il valore di erogare servizi realmente gratuiti è quello educativo (per la verità ci sarebbe pure l’Editoria). I grandi atenei americani, notoriamente molto costosi, ci sono arrivati per primi. Circa 10 anni fa, infatti, comparvero i cosiddetti Mooc, acronimo di Massive open online course, che suona più o meno come “corso online aperto e di massa”.

La sigla fu utilizzata per la prima volta nel 2008 nel corso Connectivism and Connective Knowledge di George Siemens della Athabasca University; poi i corsi si sono diffusi su scala mondiale a partire dal 2011, quando la Stanford University erogò gratuitamente un corso post laurea di Intelligenza Artificiale, che raggiunse circa 160mila iscrizioni da parte di studenti provenienti da 190 Paesi.

Lo scopo è quello di un’educazione più aperta e inclusiva. In seguito, anche diversi atenei italiani hanno cominciato a rendere disponibili corsi gratuiti: l’Università di Bologna, per esempio, ha il suo portale Mooc chiamato “Book”. Esso si concentra soprattutto sulle competenze trasversali e, al termine dei corsi, è erogato un certificato di frequenza che non sostituisce crediti universitari, ma, sostenendo un test, certifica anche il livello di competenza acquisita.

Come già accaduto per vari aspetti (di vita e di lavoro), la pandemia di Covid-19 ha accelerato questo processo di avanzamento dell’economia del dono. Secondo Franco Amicucci, Founder e CEO di Skilla – Amicucci Formazione, elearning company italiana specializzata nello sviluppo di soluzioni per innovare formazione e comunicazione interna vale la pena evidenziare che ci sono ancora molte differenze tra la realtà americana e quella italiana.

Basti osservare il diverso utilizzo di piattaforme come Slideshare, che permette ai docenti di rendere fruibili gratuitamente le slide dei propri corsi. Quelli anglosassoni lo fanno liberamente, mentre gli italiani sono meno propensi a mettere a disposizione il materiale. Questo, a suo avviso, dipende dal fatto che nel nostro Paese la conoscenza e l’informazione – intese in senso classico – sono sinonimo di potere. Oltreoceano, invece, il potere è percepito nel metodo e nella gestione del processo di apprendimento. La stessa cosa vale per l’informazione: nell’epoca dei social media, in cui le informazioni viaggiano velocissime e alla portata di tutti, il potere non è più nelle mani di chi detiene l’informazione in sé, ma di chi ha la capacità di trovare (e verificare) le fonti e, in base a esse, di costruirsi la propria reputazione. E senz’altro, sulla brand reputation influisce anche l’attenzione all’utenza e al territorio.

Le conseguenze economiche e reputazionali della gratuità

Durante la prima fase della pandemia, mentre il personale sanitario lottava in prima linea e tutti ci sottoponevamo a sacrifici e restrizioni per avere salva la vita, molte aziende hanno cercato di fare la propria parte offrendo corsi e attività. Lo scopo non è stato (solo) quello di acquisire clienti: spesso i prodotti regalati non si rivolgevano ai consumatori finali.

Molti, per esempio, hanno offerto materiali per i bambini, senza un vantaggio immediato, ma senz’altro migliorando la propria reputazione e attenzione al sociale. Data la presente crisi del mercato del lavoro, acuita dalla pandemia, diversi portali hanno poi proposto corsi orientati all’acquisizione di competenze, anche trasversali, inclusa la valutazione di esse.

Ma a che cosa è servito farlo? Ha portato più clienti? Ne ha aumentato la soddisfazione? Forse no. Ma secondo Amicucci è presto per fare questo tipo di considerazioni. Le ricadute di azioni simili sono visibili solo sul lungo periodo. Di certo, il fatto che un prodotto è offerto gratis, difficilmente induce il cliente a sminuire il valore di ciò che compra dallo stesso fornitore; anzi, il più delle volte si offre di contribuire.

I contenuti gratuiti offerti da Skilla sotto forma di manualetti e infografiche, per esempio, sono stati scaricati circa 30mila volte. Tutti nuovi clienti? Il quesito resta aperto. Ma, di certo, si sta affacciando una forte consapevolezza dell’importanza di un’economia della gratuità, che va oltre l’idea dell’economia sociale o delle implicazioni date dalla Responsabilità sociale d’impresa o dal welfare aziendale. È una tendenza a sé, all’interno dell’economia sociale e circolare, che rientra nel filone degli obiettivi dell’Agenda 2030 e, sempre di più, va verso la prospettiva di essere normata dal Legislatore.

Come nota Amicucci, la mancanza di istruzione (intesa non solo in senso scolastico) e di informazione genera nuove povertà ed emarginazioni. L’economia deve tenere conto di chi resta fuori dal mercato. Cosa ci guadagna? Innanzitutto, una dimensione di valore e di valori, di eticità, che sul lungo periodo promette di rifondare una nuova democrazia della conoscenza e, di conseguenza, un’economia più equa e a misura d’uomo, dunque più sostenibile. A partire dalle grandi multinazionali, è in corso una vera e propria gara all’acquisizione di certificazioni etiche: dal momento che non possiamo certo pensare a una sorta di ingenuità di Amazon o Google, evidentemente si sta facendo strada un sempre più forte riconoscimento del peso e del valore che i comportamenti dell’azienda hanno agli occhi del consumatore finale.

marketing, economia del dono, freemium, responsabilità sociale d'impresa


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Chiara Pazzaglia

Bolognese, giornalista dal 2012, Chiara Pazzaglia ha sempre fatto della scrittura un mestiere. Laureata in Filosofia con il massimo dei voti all’Alma Mater Studiorum – Università degli Studi di Bologna, Baccelliera presso l’Università San Tommaso D’Aquino di Roma, ha all’attivo numerosi master e corsi di specializzazione, tra cui quello in Fundraising conseguito a Forlì e quello in Leadership femminile al Pontificio Ateneo Regina Apostolorum. Corrispondente per Bologna del quotidiano Avvenire, ricopre il ruolo di addetta stampa presso le Acli provinciali di Bologna, ente di Terzo Settore in cui riveste anche incarichi associativi. Ha pubblicato due libri per la casa editrice Franco Angeli, sul tema delle migrazioni e della sociologia del lavoro. Collabora con diverse testate nazionali, per cui si occupa specialmente di economia, di welfare, di lavoro e di politica.

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