Tridico, l’Inps e il compenso del manager
La notizia del corposo aumento di stipendio del Presidente dell’Inps, Pasquale Tridico ha dominato la scena mediatica dell’ultimo weekend di settembre 2020. Una vicenda su cui i media hanno speso numerosi approfondimenti per ricostruirne i dettagli, che, riferisce la stampa, risalgono al giugno 2019 (proposta di aumento da parte del gabinetto del Ministero del Lavoro) per ‘concludersi’ ad agosto 2020 (via libera all’aumento con il nuovo Governo).
Tralasciando i silenzi dei vertici dell’Esecutivo e del Ministero del Lavoro (e di chi all’epoca lo guidava) – dalle ricostruzioni dei media, dell’aumento di stipendio del manager sembra non ne sapesse niente nessuno finché non si è letto sui giornali – uscendo dalla polemica anti-Casta, la vera questione riguarda il compenso del manager.
Come ha evidenziato Tridico replicando a una ricostruzione giornalistica, la retribuzione per chi guida un ente come l’Inps – secondo il software utilizzato per fissare i compensi degli organi di tutte le amministrazioni pubbliche – dovrebbe essere di 240mila euro annui. Nel suo caso, invece, il compenso per guidare l’Inps si fermava a 62mila euro, ovvero la cifra assegnata a Tito Boeri, alla guida dell’istituto nazionale per la previdenza fino al 2019.
Dunque, polemiche e attacchi politici a parte, è innegabile che il Presidente dell’Inps non possa percepire una retribuzione che, all’incirca, è corrisposta ai circa 7.400 dirigenti scolastici (fonte Aran). Il mercato del lavoro ha le sue regole e non c’è manager competente che, avendo mercato, accetta un lavoro – pubblico o privato – se la retribuzione è troppo bassa. Il rischio, infatti, è che lo stesso manager sia indotto a guadagni illeciti, corruzione… Sarebbe però un’alta dimostrazione di impegno civile se lo stesso manager volesse lavorare nel pubblico qualche anno, mettendo a disposizione della collettività le sue competenze, senza percepire uno stipendio (se non simbolico). Dichiarerebbe di donarsi gratuitamente alla causa, per poi, ovviamente, tornare a lavorare nel privato.
L’etica del moltiplicatore dello stipendio
Diverso, però, è il discorso legato alle risorse individuate per assegnare l’aumento di stipendio ai vertici dell’Inps. Sempre secondo ricostruzioni giornalistiche, i fondi sono stati individuati riducendo spese postali, manutenzioni e noleggi; tra le prime, in particolare, è stato bloccato il programma di spedizione delle buste arancioni, quelle che servivano per informare i cittadini sulla cifra che avrebbero percepito come pensione.
Insomma, per rispettare il vincolo che gli aumenti di stipendio non possono gravare sulla finanza, non si è ottimizzato un processo, ma si è deciso di tagliare un servizio alla comunità, senza che i diretti interessati possano replicare o, come nel libero mercato, cambiare fornitore di servizi, visto che non c’è una pluralità di soggetti chiamati a erogare la pensione.
In un’azienda sana con un budget e un controllo di gestione non è possibile spostare un costo o un investimento secondo contingenze politiche: un conto sono gli investimenti (Capex) in software, impianti, macchine, ecc.; un altro sono i costi operativi (Opex) per i processi dell’azienda, in cui rientra il labour cost e dunque anche il compenso dei manager, che attinge dalla stessa ‘torta’ con cui si compensano tutti i lavoratori.
E qui entra in gioco l’etica del manager. Si sa che nelle imprese private e quotate in Borsa, il moltiplicatore tra salario del manager e del lavoratore è troppo alto. Negli Anni 50-60, l’allora capo della Fiat Vittorio Valletta aveva uno stipendio 12 volte superiore a quello degli operai: fu uno scandalo, che chiamò in causa anche Adriano Olivetti, secondo cui il moltiplicatore massimo era 10. Qualche anno dopo, nella stessa azienda di Valletta, sarebbe arrivato un manager che avrebbe guadagnato circa 2mila volte il salario medio dei dipendenti italiani. Il privato è tutta un’altra storia rispetto al pubblico. Ma l’etica dovrebbe essere super partes.
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