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Trump che urla non.. morde (in azienda)

In ambito negoziale e manageriale, il ‘come’ conta tanto quanto il ‘cosa’. Se questo è vero nelle interazioni quotidiane, lo è ancora di più quando si parla di leadership comunicativa. Il linguaggio non è mai neutro: è lo strumento attraverso cui si costruiscono, o si distruggono, relazioni, alleanze, fiducia. La strategia comunicativa del Presidente Usa Donald Trump, fatta di toni spavaldi, affermazioni aggressive, posture di sfida continua – è recente il caso sui dazi, promessi, applicati e poi sospesi – solleva interrogativi profondi per chi si occupa di management e negoziazione. Perché ciò che può apparentemente funzionare nel breve, rischia di corrodere valore nel medio-lungo periodo.

Nelle organizzazioni, soprattutto in quelle gerarchiche o ad alta pressione competitiva, le figure apicali rappresentano un modello comportamentale. Quando una figura pubblica di alto profilo – come un leader politico o economico – normalizza uno stile comunicativo basato su prevaricazione, offesa, colpi bassi e senso di impunità, il rischio è che anche manager meno visibili si sentano legittimati a fare lo stesso.

In azienda tutto questo può tradursi in: briefing interni che diventano sfoghi punitivi; negoziazioni vissute come scontri all’ultimo sangue; comportamenti che confondono assertività con la prevaricazione e l’aggressività. L’effetto emulazione produce danni culturali profondi e difficili da sradicare. E porta a un clima tossico in cui si perde di vista l’obiettivo della negoziazione: costruire valore, non dimostrare di avere ragione.

Dal linguaggio nasce instabilità e malessere

Nel mio libro Il manager della negoziazione (Mind, 2014) parlo spesso di contesto negoziale come spazio emotivo, non solo logico. Le parole generano emozioni: quando un leader usa un linguaggio ansiogeno, minaccioso o umiliante, genera un clima che attiva le difese più primitive (chiusura, fuga, attacco). Si entra così in una spirale pericolosa, nella quale le persone smettono di cooperare e iniziano a proteggersi. Questo effetto è ben descritto anche dal filosofo Byung-Chul Han, quando sostiene che “angoscia e democrazia sono incompatibili”. In azienda potremmo dire: “angoscia e negoziazione collaborativa sono incompatibili”. Perché, quando prevale la paura, l’empatia si dissolve, la fiducia evapora e il dialogo aperto e funzionale cede il passo alla logica del muro contro muro.

Infine, c’è il rischio forse più subdolo: l’assuefazione. Il continuo utilizzo di toni sopra le righe, parole divisive, atteggiamenti narcisistici porta, lentamente, a una ridefinizione delle soglie del lecito. Ciò che ieri ci indignava, oggi ci fa alzare le spalle. Nella comunicazione organizzativa questo ha conseguenze serie: si abbassa il livello di attenzione etica; si legittimano aggressioni comunicative (interruzioni, sarcasmo, minacce velate); si indebolisce il patto relazionale tra le parti. Quando l’aggressività diventa routine, le organizzazioni smettono di funzionare come comunità di scopo e si trasformano in arene: vince a chi urla e spaventa di più.

Nel breve periodo, uno stile comunicativo aggressivo può però apparire efficace: mobilita consenso, polarizza, produce visibilità. Ma nel lungo periodo, la leadership negoziale si misura sulla capacità di costruire ponti, non fratture; di lasciare dietro di sé relazioni forti, non solo vittorie effimere. Sempre nel mio libro sottolineo che “negoziare” significa “far durare gli accordi”: nessun accordo dura se è frutto di intimidazione, delegittimazione o manipolazione emotiva. La vera influenza nasce dalla credibilità, dalla coerenza tra intento e comportamenti, dal rispetto verso gli altri. La retorica del ‘vincere a ogni costo’ lascia spesso dietro di sé solo cocci da raccogliere.

Se vogliamo davvero innovare il modo di fare management e negoziazione, serve il coraggio di dissociarsi da modelli appariscenti, ma sterili. Serve il coraggio di rifiutare la semplificazione urlata in favore della complessità negoziata. E serve, soprattutto, il coraggio di scegliere uno stile relazionale fondato sulla competenza emotiva, sulla chiarezza, sulla reciprocità. Il modo in cui comunichiamo definisce chi siamo e, nel lungo periodo, molto più dei risultati che otteniamo oggi. È tempo di tornare a investire su un linguaggio che costruisca futuro, non solo consenso di breve termine.

negoziazione, comunicazione azienda, dazi Trump, donald trump


Alessandra Colonna

Alessandra Colonna

Torinese di nascita e milanese d’adozione, si dedica alla consulenza manageriale e alla formazione per lo sviluppo della capacità negoziale. Ha scritto il best seller Il manager della negoziazione, oggi alla sua terza edizione.

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