Umanizzare il lavoro per dargli un nuovo significato

A ogni nuovo ritrovato tecnologico corrisponde una diminuzione del compenso del lavoratore: è partito da questa provocazione l’intervento di Francesco Varanini (Direttore della rivista Persone&Conoscenze, edita da ESTE, editore anche del nostro quotidiano) che ha aperto l’incontro dal titolo Politiche per il lavoro umano e promosso dalla Casa della Cultura di Milano all’interno del ciclo di webinar Per una critica della politica digitale.

All’evento sono intervenuti, oltre a Ferruccio Capelli della Casa della Cultura, Michele De Rose (membro della Segreteria nazionale Filt-Cgil), Alberto Peretti (filosofo e fondatore di Genius Faber e Impresa21) e Luciano Pero (consulente e ricercatore) che si sono confrontati su come l’automazione debba portare con sé una riflessione sulla reale natura del lavoro e di come ci sia bisogno, oggi, di un nuovo patto per il lavoro umano.

Non lasciare il lavoro nelle mani dei soli tecnici

Per capire il motivo per cui sia ora necessario tornare a parlare di lavoro umano bisogna considerare la rapida evoluzione delle tecnologie che hanno ormai un impatto rilevante nella vita lavorativa di tutti. “In Cina si sta investendo sempre di più nelle fabbriche a luci spente. Una situazione estrema che dobbiamo prendere in considerazione, attrezzandoci per il futuro”, ha argomentato Varanini. Per questo suggerisce di “smettere di parlare di ‘lavoro’” per “iniziare a parlare di ‘lavoro umano’, distinguendo per difenderlo”. “Il passo successivo sarà ragionare su un patto per il lavoro umano, coinvolgendo i tecnici. Perché un tecnico che consapevolmente idea macchine per sostituire il lavoro umano dovrebbe essere ritenuto incostituzionale: vìola le leggi della Costituzione”.

Al pensiero del Direttore di Persone&Conoscenze ha fatto seguito quello di Pero, la cui tesi conferma la situazione, ma permette di trovare una soluzione: “Se lasciamo le decisioni in mano ai tecnologi, le cose continueranno ad andare male – è vero – ma possiamo elaborare un nuovo modello di organizzazione del lavoro”. A suo dire, tuttavia, il lavoro non sparirà mai, per tre motivi: serve gestire le macchine; ci sono dei limiti alla calcolabilità e all’interpretabilità dei dati (e non sono costruibili automi che imitino fino in fondo l’essere umano e il professionista, come nei lavori di cura); alcune professioni non sono energicamente sostenibili. Per salvare il Pianeta, insomma, “servirà tornare ai lavori manuali”.

Le sfide e le opportunità saranno quindi, d’ora in poi, la sostenibilità e la produttività. “In Italia ci sono sempre meno lavoratori e sempre più persone inattive da mantenere e per questo serve puntare sulla produttività. Ma allo stesso tempo per salvare l’ambiente dobbiamo produrre meno anidride carbonica. È difficile conciliare le due cose, ma possiamo cambiare il lavoro e salvarlo”, ha continuato Pero. Che intravede la salvezza proprio dalla trasformazione dei processi di lavoro: nei prossimi anni si dovrà puntare su lavoro partecipato (con i lavoratori che prendano finalmente parte alla progettazione degli strumenti tecnologici), lavoro intelligente e con orari ridotti, oltre che sulla formazione per avere figure professionali sempre più specializzate e meno operai manuali.

Regolamentare il lavoro degli addetti alla Logistica

De Rose, occupandosi quotidianamente di trasporto merci nell’ambito della Federazione dei trasporti della Cgil, ha concentrato l’attenzione sulla Logistica, partendo dalle sue conoscenze sul lavoro in Amazon e negli altri hub che oggigiorno impiegano automazione e tecnologia in maniera massiccia. È innegabile che in particolare nell’ultimo turbolento periodo caratterizzato dalla pandemia, questo settore ha permesso al Paese di continuare a funzionare. Tuttavia, ha spiegato il sindacalista, “molta gente si è dimenticata di come i lavoratori della Logistica, durante il primo lockdown, abbiano consegnato le merci per consentire agli altri di vivere in casa o al lavoro”. E l’automazione, all’interno del sistema, è stata (ma lo è tuttora!) fondamentale. “È vero, negli ultimi anni si è abbattuto l’intervento dell’uomo in questo settore (dal 71% al 48%), ma non si è cancellato. Dobbiamo poi contare le ondate di tecnologia, con accelerazioni e rallentamenti di diversa portata”. Per De Rose, però, “i posti di lavoro si distruggono, ma allo stesso tempo si creano”.

Per quanto riguarda i rider, altri protagonisti della Logistica attuale, secondo il sindacalista “non c’è possibilità di contrattazione o confronto”. Perché? “Tutto nasce da un sistema diverso, per algoritmi, con una vecchia impostazione a cottimo. Quando abbiamo affrontato questi temi in fase contrattuale partivamo da certi principi”. Principi come: il riconoscimento dei lavoratori come interlocutori che, svolgendo la professione sul campo, danno un contributo importante; la ricerca di una contrattazione non classica, che costruisca d’anticipo; e infine la riduzione dell’orario di lavoro, come auspicato anche da Pero.

Intanto nel vuoto legislativo, sono i giudici a risolvere le questioni aperte: è successo nel Regno Unito dove la Corte Suprema britannica ha sancito che gli autisti di Uber non sono lavoratori autonomi, ma lavoratori subordinati; in Italia, invece, è stata la Procura di Milano che ha imposto l’assunzione di oltre 60mila lavoratori di quattro società del delivery (Uber Eats, Glovo-Foodinho, JustEat e Deliveroo). Inoltre da poco esiste anche il Contratto collettivo nazionale del lavoro dei rider, anche se per De Rose non va nella direzione auspicata. “Questi lavoratori sono come i proletari dell’800, non ancora emancipati”.

Il significato del lavoro, oggi

Nel confronto, Peretti ha portato il suo sguardo sul significato del lavoro. “Se oggi possiamo ipotizzare di sostituire in toto il lavoro umano con le macchine è perché pensiamo il lavoro in modo anacronistico, primitivo, come dimensione in cui si producono cose, beni e servizi”. Ma il lavoro, a suo dire, non è solo questo e ora la questione sta emergendo: “Lavorando produciamo noi stessi, produciamo vita”.

Sia per Peretti sia per De Rose il problema sta nella mancata evoluzione del lavoro negli ultimi secoli. “Serve una rivoluzione antropologica e filosofica, ricominciando a pensare al lavoro in maniera radicale come luogo in cui si produce buona esistenza”. Il lavoro ridotto a merce e tornaconto, per Peretti, è una concezione falsa. “Il lavoro da secoli si è de-esistenziato, perdendo le caratteristiche della vita: gusto, etica, bellezza. Dobbiamo versare questi valori di nuovo nel lavoro. Perché lavorare significa vivere”.

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Sara Polotti

Sara Polotti è giornalista pubblicista dal 2016, ma scrive dal 2010, quando durante gli anni dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (facoltà di Lettere e Filosofia) recensiva mostre ed eventi artistici per piccole testate online. Negli anni si è dedicata alla critica teatrale e fotografica, arrivando poi a occuparsi di contenuti differenti per riviste online e cartacee. Legge moltissimo, ama le serie tivù ed è fervente sostenitrice dei diritti civili, dell’uguaglianza e della rappresentazione inclusiva, oltre che dell’ecosostenibilità.

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