Un approccio diverso alla complessità
Anzitutto mi preme sottolineare che se da un lato il libro La vita non è uno smart working di Pier Luigi Celli (ESTE, 2021) è scritto molto bene, dall’altro ha la peculiarità di affrontare argomenti assai importanti e profondi con una semplicità e una chiarezza di linguaggio che ho difficilmente riscontrato in analoghi testi in materia. Grazie all’autore, perché è una delle poche volte (forse l’unica) che prendere un ‘cazzotto’ in faccia (ovviamente metaforico) è assai salutare e istruttivo. 160 pagine di spunti di riflessione sia teorici sia pratici, che vanno al nocciolo della questione: o tutti noi, a diversi livelli di ruoli, responsabilità, iniziamo a ‘forzare’ e stimolare cambiamenti di mentalità, oppure la realtà dei fatti rischierà di travolgere tutte le aziende che non si saranno attrezzate per farlo.
Ci troviamo dinnanzi a una complessità che non è più solo verticale, ma anche orizzontale. Nel senso che non basta solo accrescere le competenze (sapere, saper fare e saper essere), bensì è fondamentale migliorare l’approccio mentale, culturale e sociale alla base. Metaforicamente è un po’ come dire che per guidare una macchina non basta più la patente, ma è necessario pensare che la tecnologia può farlo per noi, su strade virtuali (terrene, aeree) che di fatto implicano una filosofia di guida completamente diversa.
Qual è il ruolo del capo nel cambiamento?
Tutto ciò premesso, mi soffermerò su alcuni aspetti toccati dal libro: la fiducia, l’importanza della flessibilità/informalità, la variabile del tempo. Per quanto concerne la fiducia, se è verità sacrosanta quanto esplicitato dall’autore, ovvero che “non è un bene che si compera a buon mercato né facendo valere la posizione e il ruolo che si occupa”, è altrettanto fondamentale evidenziare che rappresenta il minimo comun denominatore per creare le fondamenta su cui costruire qualsiasi progetto di cambiamento, ovviamente anche quelli di carattere organizzativo. Senza la fiducia ritengo che non via sia propensione né a liberare né a riconoscere energie, pensieri creativi, passioni, ecc. Detta in altri termini, senza un clima di fiducia reciproca tra tutti gli attori in gioco, non vi sono le condizioni basilari per far emergere, in maniera netta e soprattutto costante nel tempo, nessuna tipologia di intelligenza sociale, contestuale, tecnica, ecc.
Etimologicamente per “fiducia” si intende un “atteggiamento, verso altri o verso se stessi, che risulta da una valutazione positiva di fatti, circostanze, relazioni, per cui si confida nelle altrui o proprie possibilità”. Come si può evincere, un rapporto fiduciario ha necessità di reciprocità, di reciproci fatti, circostanze, relazioni positive che reiterate nel tempo spingono le persone a fidarsi e quindi anche ad affidarsi.
Alla luce sia di queste riflessioni basilari e sintetiche sia di quanto in merito scritto da Celli (salvo miei errori d’interpretazione), mi preme evidenziare che l’unico aspetto del libro su cui non sono completamente d’accordo è quello relativo all’enfatizzazione del ruolo del capo come principale, quasi unico, fautore della riuscita del percorso di cambiamento. A scanso di equivoci mi è chiaro e concordo con l’autore sul fatto che parlando di azienda è certamente responsabilità primaria dei capi favorire una cultura della fiducia complessiva (a prescindere dai ruoli), tuttavia penso che la buona riuscita di un cambiamento passi sempre di più anche dalla disponibilità/volontà vera, sentita, delle persone che vivono quotidianamente l’azienda. Anzi più aumenta la complessità esterna, più è fondamentale che vi sia reciproca propensione a far trionfare il senso della collettività (in termini di azienda, di gruppo di lavoro, di colleghi, ecc.) rispetto al vantaggio, seppur legittimo, del singolo.
Un aspetto che, sulla base anche della mia personale esperienza aziendale, ritengo possa fungere da facilitatore di una cultura aziendale incentrata sulla fiducia reciproca è costituito da un sistema di relazioni tra capo e collaboratori prettamente informali. Un capo che tiene spesso la porta del suo ufficio aperta o che mette in rubrica aziendale il proprio cellulare, oppure per primo si ferma alla macchinetta del caffè a scambiare due chiacchiere con i dipendenti presenti, manda un messaggio chiaro di vicinanza, di propensione al confronto con tutti.
Il potere dell’informalità inteso come opportunità di confrontarsi, di far emergere idee, soluzioni, piste di lavoro a prescindere dal ruolo, ma chiaramente nel rispetto delle responsabilità connesse. Un’informalità che non deve creare confusione di ruoli – o ancora peggio inversione di ruoli tra capo e collaboratori – bensì favorire la serenità necessaria ad aprire le menti, a mettere in campo il più possibile quella flessibilità mentale imprescindibile per fronteggiare le complessità attuali.
Probabilmente questo scenario presupporrà anche un cambio di logica del potere stesso, ossia paradossalmente non sarà più il capo a essere nelle condizioni di poter imporre, esplicitare il modus operandi ai collaboratori, ma viceversa dovranno essere sempre più i collaboratori, che toccano con mano le complessità quotidiane, a fungere quasi da ‘consulenti’ fornendo una o più ipotesi di lavoro su cui spetterà al capo decidere.
Il tempo come investimento
Se come sottolineato anche dal libro, la pandemia ha contribuito ad accelerare la consapevolezza che molti assetti organizzativi aziendali ormai sono obsoleti perché non più capaci di gestire sia la velocità dello sviluppo tecnologico sia i cambiamenti sociali, valoriali, economici che si sono verificati, oltre alla logica del potere dovrà probabilmente cambiare anche quella relativa al tempo di lavoro. Un tempo forse non più (o non solo più) inteso come denaro, che di fatto ha implicitamente alimentato sia il sillogismo ‘confronto = perdita di tempo = perdita di denaro’ sia l’esasperazione della standardizzazione delle procedure come unica strada per risultare efficienti ed efficaci, bensì come investimento necessario per trovare soluzioni (più utili che giuste) ad affrontare difficoltà imponenti.
E proprio per fare in modo che la risorsa tempo acquisisca sempre più valore sia in positivo (cioè, bisogna dedicarne parecchio) sia in negativo (nel senso che non ne dobbiamo perdere), tra le mille iniziative a favore varrebbe forse la pena recuperare anche il concetto di tempo espresso da Luciano De Crescenzo nel film Così parlò Bellavista: “Il tempo è un’emozione ed è una grandezza bidimensionale, nel senso che puoi viverlo in lunghezza o in larghezza. Se lo vivi in lunghezza, in modo monotono e sempre uguale, dopo 60 anni avrai 60 anni. Se invece lo vivi in larghezza, con alti e bassi, innamorandoti e magari facendo pure qualche sciocchezza, dopo 60 anni avrai solo 30 anni. Il problema è che gli uomini studiano come allungare la vita, quando invece dovrebbero studiare come allargarla”. Un tempo ‘più largo che lungo’ sono convinto che servirebbe assai anche alle aziende.
Per informazioni sull’acquisto scrivi a daniela.bobbiese@este.it (tel. 02.91434400)
lavoro, Smart working, cambiamento organizzativo, Pier Luigi Celli